I BAMBINI NON SONO STATUE
Di tutte le ferite aperte dal Covid, quella della scuola, chiusa per prima e mai più aperta, è la più amara, la più profonda, la meno giustificabile. Bisogna tornare a scuola, assolutamente. Sarà a settembre, perché in queste settimane nessuno ha pensato di recuperare niente. La scuola non recupera mai!
Come riaprire? Le linee nazionali per la riapertura, non convincono, anche perché lascerebbero oltre un milione di ragazzi senza scuola. Le linee sono appunto nazionali e generali, cioè immaginano un vestito unico per ogni tipo di scuola e per ogni geografia.
Vediamo Roma. In città ci sono 3mila scuole e 27mila classi. Ogni edificio è diverso dall’altro. Ogni edificio ha i suoi pregi e i suoi difetti. Ogni edificio risale a epoche diverse. Come s’intende omogenizzare qualcosa che è diverso per sua natura? È evidente che bisogna ragionare seguendo un’altra prospettiva.
Prendiamo, ad esempio, il distanziamento fra i bambini di un metro (esattamente da bocca a bocca, anzi tra «rime buccali» secondo un lessico improbabile e impossibile). Non sono statue di cera, i bambini; e poi chi può assicurare che quel metro sarà mantenuto per tutte le ore della scuola?
Sono forse statue di cera, i bambini? Lottare per il centimetro su qualcosa che la natura vuole mobile e non distanziabile, è poco più che un esercizio aritmetico.
Èevidente che, date tutte le necessarie prudenze, la distanza sociale non può essere un criterio matematico, meccanico, astratto. Ad esempio, a Roma le scuole di ogni ordine e grado sono rimaste chiuse in questi mesi, anche quando i dati del Lazio erano su livelli minimi. Si sarebbe capita la prudenza a non aprire «La Sapienza» e le altre università, per la paura di assembramenti e di una intensa mobilità territoriale, ma perché non aprire almeno le scuole materne? Perché in Umbria, e in zone del Lazio, con un tasso di contagio pari a zero, tutte le scuole son rimaste chiuse, anche la materna nel paesino che non ha mai visto un caso di Covid?
Adesso il nemico è l’eccessivo numero di alunni per classe, descritto con l’espressione «classi pollaio». A parte la definizione infelice: i bambini non sono polli; i dati ci dicono altro. A Roma la media è 22 alunni per classe (e nelle paritarie addirittura 15): le definiremmo «classi pollaio»? In Germania il numero medio è più alto, per dire. La legge impone un massimo di 26 alunni per classe, poi la stessa legge non dice in quali spazi.
Bisogna lavorare su altri criteri, cioè vedere il livello generale dell’epidemia: se è vicino allo zero, come sarà, se continua l’andamento di questi ultimi mesi, non c’è bisogno di centimetri; se ci sarà una seconda ondata, non c’è centimetro che tenga. Bisogna dare autonomia reale alle scuole: solo il preside, sganciato però da responsabilità penali, che non gli competono, perché non dipende da lui l’epidemia, può ottimizzare la situazione della sua scuola. I livelli superiori gestiscano quello che il preside non può gestire. La scuola deve rinascere, ciascuna con il suo vestito migliore, che sia davvero il momento dell’autonomia?