Ciconte racconta la storia criminale della città eterna
Il libro di Enzo Ciconte racconta la storia della malavita nella Capitale, dal 1870 a oggi. «Esiste una classe dirigente, che ha una ritrosia a riconoscere l’esistenza della mafia nella città eterna»
Enzo Ciconte non è uno storico da contemplazione, la sua ricerca puntuale e appassionata nel passato non è di quelle che si accontentano di illuminarne date, nomi, fatti e misfatti. Ma è una pratica combattente, che schiva le mezze parole e alza il velo su una questione urticante: le mafie, con la loro corte di connivenze, che Ciconte – il primo a pubblicare nel 1992 un ritratto lucido della ’Ndrangheta dall’Unità a oggi – rintraccia senza fare sconti alla politica, alla magistratura e alla società civile. «Perché il primo passo per combatterle è ammetterne l’esistenza».
Il peccato di Roma, come scrive nel suo nuovo libro L’assedio (Carocci Editore), sembra essere proprio quello di credere – o voler credere – che la sua criminalità sia fatta solo di balordi, piccoli clan locali, fattacci isolati. «Esiste una classe dirigente cittadina, di cui fanno parte anche intellettuali, imprenditori, comdhal mercianti, giornalisti, magistrati, politici d’ogni colore, uomini di Chiesa e borghesia, che ha una ritrosia a riconoscere l’esistenza della mafia romana, quasi che il solo parlarne significasse sporcare l’immagine della città eterna. Lasciando Roma sotto l’assedio non di un solo potere criminale ma di un mondo malavitoso che ha tante facce quanti sono gli interessi politici ed economici che animano la città».
Ciconte parte dal 1870: «mentre a Porta Pia si consumava lo scontro, a Palazzo Sciarra si riunivano principi, banchieri, esponenti della finanza vaticana. Senza che ne avessero titolo questi signori programmarono le sorti della città». Prosegue di bulli e briganti innalzati a eroi, come Gasbarrone, detenuto a Civitavecchia negli anni in cui Stenvi risiedeva in qualità di console: «Era tanto famoso che lo scrittore se ne lamentò: “su cento stranieri che passano, cinquanta vogliono vedere il celebre brigante Gasperoni, e quattro o cinque il signor de Stendhal”».
E poi via via scandali, omicidi, borsa nera, borgate, traffici internazionali, droga, fino alla banda della Magliana, che riuniva «cravattari» e «pezzi grossi». «C’erano criminali comuni, violenti, mafia siciliana, ’ndrangheta, camorra, uomini dell’eversione nera, della massoneria, dei servizi segreti. Ma soprattutto uomini disposti a tutto. Con la banda cambia per sempre il volto del magma mafioso nella Capitale». Ciconte lo racconta con dovizia di particolari ma senza perdersi nei cavilli delle singole vicende. «L’obiettivo del libro – spiega – non è raccontare tutti malfatti capitolini ma realizzare quello che mancava: una sintesi della storia criminale della città, l’unica in Italia dove convivono forme di malavita tanto eterogenee».
Ciconte si spinge fino a oggi, con i Casamonica, gli Spada, i Fasciani, l’omicidio Diabolik (Fabrizio Piscitelli), Massimo Carminati e l’inchiesta Mafia Capitale. «Che però alla fine – si rammarica lo scrittore – la Corte di Cassazione non ha ritenuto di qualificare come mafia. Finché non chiameremo le cose col proprio nome sarà difficile affrontarle. Ho scritto questo libro con un linguaggio chiaro, perché nulla fosse equivocabile e chi legga, appassionati o no di storia, potesse avere gli strumenti per prendere una posizione».