LA RABBIA DI UNA CITTÀ Cisterna, l’addio a Nicoletta e Renée «Per noi non c’è vendetta che tenga»
Desyrée, sfuggita al massacro, e il padre vanno via in silenzio dalla chiesa
Un paese che sfila sgomento con in corpo la rabbia: «Lo devono sciogliere nell’acido o dare in pasto ai maiali...», mormora il più anziano del capannello che staziona sulle panchine di piazza XIX Marzo. Si capisce che punta a farsi giustizia a suon di mugugni col suo cupo furore. Un sospiro corale accoglie il lamento e lo restituisce smorzato: «Eh, ma non c’è vendetta che tenga...», replica un altro. La cerimonia, con il suo rosario di verità rimosse, è iniziata: «Se non avessi la carità - recita dalla lettera ai Corinzi una giovane sarei un cembalo che strepita». Dagli altoparlanti filtrano voci venute dall’interno della chiesa. Qualcuno si ostina a cercare Desyrée tra la ressa. Sul piazzale sfilano gli striscioni degli «Amato di Afragola» (la famiglia di Desyrée ha parenti
nel napoletano dove vive il fratello di Giuseppe «Pino» Amato): «Renée, Nicoletta ti terremo sempre nei nostri cuori». Spunta una foto della sorellina di Desyrée imbronciata con indosso un colbacchino in pelliccia. Stessa foto è stampata sulle t-shirt di un gruppo di adolescenti di Cisterna. Va a finire che lo stravagante
cappello diventa il simbolo della giornata. Altro striscione, solita foto. Stavolta sono le amiche del paese a promettere: «Non vi scorderemo mai» a Nicoletta Zomparelli e Renée Amato. Si fa strada l’omelia asciutta di don Paride Bove: «La nostra comunità è rimasta profondamente colpita da alcune assurde circostanze. Tutto è successo alla vigilia di una festa importante: San Valentino. E tra l’altro in un quartiere che porta questo nome. È talmente assurdo questo fatto che difficilmente si può non pensare ad un’opera malvagia oltreumana e che, continuamente cerca di rendere il cuore dell’uomo duro e incapace di vivere una logica diversa». E poi, ancora, giù, attraverso la descrizione di un amore malato di possesso e narcisismo di cui Nicoletta e Renée «sono martiri», afferma don Paride convinto, può darsi, che questa folla riunita abbia bisogno di votarsi a qualche santo per guardare al futuro.
Nessuno pronuncia il nome di Christian Sodano quasi un veto silenzioso, un non detto condiviso. Ma qualcuno come Franco, un lontano parente della famiglia Amato venuto da Frosinone, teme qualche
esito processuale sfavorevole: «Non diciamo che era pazzo. Era lucido ed è giusto che si assuma le sue responsabilità. Vogliamo una condanna esemplare».
Qualche cellulare trilla incongruo sul sagrato mentre l’omelia va avanti: «Oggi noi abbiamo una missione urgente: essere tra i protagonisti dell’edificazione di una civiltà dell’amore». La famiglia Amato è raccolta tra i banchi della Chiesa: Desyrée uscirà da una porta sul retro a fine cerimonia, occhiali neri e cappuccio in testa, nascosta alla curiosità dei cronisti ma soprattutto provata dallo strazio assoluto. Dietro di lei Pino, il papà.
La cerimonia vira verso la conclusione. Si assiste a una sfilata di pettorine multiple della Protezione civile, chissà perché variamente assortite. Qualcuno si lamenta per la presenza dei giornalisti ma i vigili tirano dritto: non è il momento di replicare. Gli uomini del servizio funebre liberano due gabbie di colombe. Ci sono i palloncini bianchi. É il momento del pathos. L’abbraccio si scioglie lentamente come accade per certe storie intricate. Sfilano la Porsche che ospita parenti e amici dietro il doppio carro funebre. Si chiude il portone della chiesa. I ragazzi girano l’angolo in cerca di altro. La scena da domani si sposta in un’aula di giustizia.