De Rossi, il coraggio di essere un uomo
Tutti vorremmo avere un mister come DDR. O, forse, sarebbe più corretto dire: tutti vorremmo avere un amico come DDR. Uno che sta dalla tua parte sempre e comunque; uno che ti sta vicino nel bene e nel male, nella buona e nella cattiva sorte. Uno che non ti lascia per strada. Mai. Uno che se/quando hai bisogno di aiuto, ha la forza di urlare al mondo: stop, fermate tutto. Uno che ragiona perennemente con «noi», mai con «io» o «lui». Daniele De Rossi, a Udine, nei drammatici momenti del malore di Ndicka si è comportato da uomo. Ha smesso i panni dell’allenatore e ha indossato in una frazione di secondo quelli del fratello. Del padre, forse. Dell’amico, certo. O tutti o nessuno, senza Evan non si va avanti. Io non ti abbandono, io sto con te. Chissenefrega del pallone: con la salute non si gioca. Costi quel che costi. Nulla di eroico, per carità. Non era scontato farlo, però. E quando una roba così sarà la regola, e non più l’eccezione, non ci sarà neppure la necessità (e anche il piacere, oggi) di sottolinearlo. Di applaudire un uomo che fa l’uomo. Un professionista può azzeccare o toppare le mosse, può modellare la propria squadra salvo stravolgerla nel giro di mezz’ora ma un uomo deve avere la lucidità per ragionare, più per gli altri che per sé, quando è necessario certificare con i fatti il proprio ruolo di guida. Se un giocatore lo vedi (anche) dall’altruismo e dalla fantasia, un allenatore come DDR lo riconosci soprattutto dal coraggio. Il coraggio di essere umani, in primis.