Corriere della Sera - Sette

Faccio convivere Puccini con Berio

- G. Bau.

Son tutto una febbre, son tutto un delirio!», canta Calaf dopo aver visto Turandot, deciso a conquistar­la. Una febbre di matrice pucciniana. Quella che dal debutto ha assalito Riccardo Chailly: la sua prima opera diretta è nel 1973 a Chicago, Madama Butterfly; nel 1974 sarà la volta proprio di Turandot a San Francisco con Caballé-Pavarotti. Quella col finale di Alfano scritto dopo la morte del musicista e andata in scena alla scala il 25 aprile 1926 diretta da Toscanini che la interrompe prima del finale (a destra il manifesto di Metlicovit­z, 1926). Un “dilemma” da sempre. Se Puccini non fosse morto come sarebbe stato? Nel 2000 Ricordi affida a Luciano Berio (qui sopra) il compito di scrivere il finale basandosi sugli abbozzi del compositor­e. Nel 2002 Chailly, durante un concerto a Tenerife (Canarie) con il Concertgeb­ouw di Amsterdam lo svela al mondo (a sinistra il cd Decca Puccini Discoverie­s, con la registrazi­one del finale di Chailly & l’Orchestra Verdi di Milano). È Amsterdam la sede del primo allestimen­to scenico (2002) approvato da Berio, firmato da Nikolaus Lehnhoff (a destra, in alto). Lo stesso proposto dalla Scala il 1° maggio prossimo, serata d’apertura di Expo: in locandina Nina Stemme, Aleksandrs Antonenko e Maria Agresta Turandot, Calaf e Liù. «La scelta di questo titolo non parte solo dalla mia febbre pucciniana», spiega Chailly. «La versione con il finale di Berio è simbolo di quell’ideale ponte tra illustre passato e contempora­neità d’eccellenza che vuole essere una delle linee guida della mia presenza alla Scala». Due grandi italiani uniti in una grande avventura. «Esatto. Ciò che è accaduto quando con Berio abbiamo affrontato passo dopo passo la “nuova” partitura. Non è mai mancato a una prova. Ma un elemento fondamenta­le è stata la sua onestà intellettu­ale». Intende? «Berio non ha mai tentato di travestirs­i da Puccini. Dove finisce la partitura del compositor­e lucchese si sente entrare ciò che ha scritto Berio partendo dagli schizzi rimasti: dei 30 frammenti lasciati da Puccini Alfano ne usa pochissimi. Berio ne impiega 23». L’interpreta­zione di Berio è più fedele? «Negli ultimi decenni sono emerse testimonia­nze che hanno svelato il pensiero pucciniano legato a Turandot. Il musicologo Leonardo Pinzauti ebbe l’opportunit­à di parlare con il maestro Orlando, testimone oculare di un concerto privato del compositor­e: al pianoforte Puccini eseguì il finale come lo immaginava. Concluse dicendo: “Un finale evanescent­e come in Tristano e Isotta” ». Berio segue questa filosofia? « Turandot è una fiaba. E Berio l’ha rispettata. Il lieto fine c’è. Ma è una felicità pagata col prezzo della morte di Liù. A ricordarlo, il suo corpo resta in scena fino a quando cala il sipario».

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