Due Italie, un’anima: quella nazionalpopolare
Dai festival di Sanremo alle feste dell’Unità: così i tempi della Repubblica sono stati scanditi dalle stesse canzonette
Più che tante Italie, come si dice di solito, c’è un’Italia sola, ma variamente coniugata. Tra le tante coniugazioni, c’è l’imperfetto sanremese: l’Italia delle canzonette sdolcinate e della retorica sentimentale, dove impazzano lui e lei, talvolta l’altra o l’altro, mentre il sole splende, la luna spunta dal monte e amanti altrimenti seri, trasfigurati dai versi più sbrodolosi, si dichiarano amici delle nuvole. È di questa speciale Italia, nel suo rapporto con la storia dell’economia, della politica e del costume, che si occupa lo storico Leonardo Campus nel suo Non solo canzonette, storia sociale dell’Italia dal primo festival di Sanremo alla fine degli Anni Sessanta. È un libro da leggere, avendo tempo e costanza, insieme al saggio Falce e tortello di Anna Torelli, dove si coniuga l’Italia al futuro anteriore delle feste dell’Unità. Festival di Sanremo e feste dell’Unità sono stati i principali appuntamenti nazionalpopolari ( per dirla in gergo gramsciano, a sua volta nazionalpopolare) che hanno scandito i tempi della prima repubblica fin quasi alla fine. Vi risuonavano più o meno le stesse canzonette e le stesse “narrazioni”; e anche se la « kermesse sanremese » ( come la chiamavano i giornali, in langue de bois gazzettiera) era snobbata dai cantautori engagés, presenti invece alle feste dell’organo di stampa comunista con le loro armoniche simil- Dylan e i loro occhialetti à la John Lennon, vi si coltivava esattamente la stessa retorica caramellosa. Nell’Italia dell’emigrazione interna, del PIL in crescita a ritmi cinesi, del “beat” ( geniale il racconto che ne fa Edmondo Berselli in Adulti con riserva) e del Sessantotto, la luna rossa e il sol dell’avvenir erano decisamente lo stesso astro smanceroso, demagogo e strappacore. A Sanremo tene- vano banco le traversie sentimentali, alle feste dell’Unità ci si struggeva invece per le disavventure sociali, ma erano sempre i soliti quattro accordi ( qualche volta ammirevoli e fischiettati da tutti) e le solite quattro rime ( qualche volta azzeccate). Non c’erano due Italie, come pensavano la RAI democristiana, che impose la sua ridicola morale bacchettona persino ai versi sfibrati delle canzonette, e il partito comunista, le cui feste erano straordinarie e pompose macchine di propaganda. C’era un’Italia sola, e da allora tutto è cambiato: i dati economici, la qualità della classe politica e l’umore dei cittadini, sempre più nero. Tutto è cambiato, tranne la colonna sonora, che rimane la stessa, orecchiabile e sgangherata.
Un po’ lento, un po’ rock. Due Italie più identiche che contrapposte: l’Italia dei fan di Nilla Pizzi e di Domenico Modugno, di Mina e Milva, di Gigliola Cinquetti e di Bobby Solo affollava la stessa piazzanazionalpopolareoccupatadall’Italia dei fan di Palmiro Togliatti e di Kruscev, della Cina maoista e della Cuba di Fìdel ( l’equivalente carioca e guerrigliero di Little Tony). Queste due Italie, col tempo, avrebbero possesso di tutte le altre, come il “naso” di Gogol, che si sostituisce al suo proprietario, l’ « assessore collegiale Kovalëv » . Mentre l’Italia delle feste dell’Unità s’incarna nell’Ulivo, con i suoi Jovanotti e i suoi Celentani che distinguono tra ciò che è « rock » da ciò che è « lento » , nel partito di plastica s’incarna l’Italia di Sanremo, delle soubrette, d’Amici e di Stranamore, l’Italia dei leader confidenziali che siedono al pianoforte e strimpellano orrende romanze napoletane. Signori, l’Italia plurale. Difficile, e forse impossibile, insegnare un’altra musica ai vecchi suonatori.