Corriere della Sera - Sette

La corsa dei keniani

I ragazzi della Rift Valley sono atleti eccezional­i ma la possibilit­à di diventare campioni, e guadagnare 400 volte più di un insegnante, ha concentrat­o su di loro pressioni e interessi. Anche illeciti epericolos­i

- Di Marco Merola -Foto di Uliano Lucas

Sugli altipiani keniani della Rift Valley, non lontano dai luoghi dove milioni di anni fa si svilupparo­no esemplari primordial­i di uomini, vive oggi una razza aliena, i maratoneti. Non è necessario essere esperti di atletica o ricordare i vincitori delle ultime Olimpiadi, dei Mondiali, delle gare di New York, Boston, Londra, Berlino, tanto vince sempre uno di loro. Nel Paese africano sono arrivate decine di Università da tutto il mondo, desiderose di carpire il segreto di questi atleti. Alcune hanno tentato, senza successo, la via della biopsia muscolare ( che avrebbe significat­o prelevare campioni di tessuto), altre si sono limitate a monitorare normalissi­mi studenti scambiati per… campioni in erba. Tra errori e improvvisa­zioni, insomma, nessuno è riuscito a risolvere il mistero della supremazia podistica keniana. Un solo uomo conosce tutte le risposte, è un italiano, si chiama Gabriele Rosa. Cardiologo, medico dello sport ed ex mezzofondi­sta, Rosa, che oggi ha settant’anni, ha speso l’ultimo quarto di secolo a costruire sugli altipiani quella che è stata definita, con espression­e forse un po’ cinica ma calzante, “la fabbrica dei campioni”. Un’enclave a sé stante, con le

Sull’altopiano dove un italiano ha insegnato agli africani come vincere le maratone

proprie regole, la propria filosofia e un obiettivo incrollabi­le nel tempo: correre più veloci degli avvers0ari. Tutto cominciò nel 1990 quando Gianni De Madonna, apprezzato maratoneta poi trasformat­osi in manager, chiese al dottore, che al tempo viveva a Brescia ( dove aveva fondato il Centro Marathon), di prendersi cura del ginocchio di Moses Tanui, un keniano molto forte. Rosa accettò di prendere sotto la sua ala l’atleta e ne nacque un rapporto così stretto che Tanui gli chiese di prepararlo per i Campionati del Mondo in programma l’anno dopo ( il 1991) a Tokyo. In Giappone, per la cronaca, vinse i 10.000 metri stracciand­o la concorrenz­a. Ma Moses non era solo un ottimo corridore, era un visionario, anche un po’ impudente. E allora chiese all’amico italiano: « Perché non vieni in Kenya e ti prendi cura di me e degli altri ragazzi nella Rift Valley? » .

Un “fatto sociale”. All’epoca il Kenya era piazzato bene nel ranking mondiale del mezzofondo, ma mancava del tutto nella

Molti non hanno le scarpe, affidano alle nude piante dei piedi la lettura del suolo, natura contro natura. « La sfida è stata far capire loro comesi dovevano allenare » , diceRosa

maratona. « Infatti, mi ascrivo il merito di aver fatto conoscere ed apprezzare questa distanza ai keniani, anzi, di aver fatto diventare la maratona un fatto sociale » , ci spiega Rosa mentre sorseggiam­o un succo di passion fruit all’ombra di un patio. Siamo a Eldoret, distretto di Uasin Gishu, 2.100 metri sul livello del mare. È la capitale della “regione” dei corridori, come ci ricorda “The Wall of Champions”, un murales che celebra i più grandi atleti keniani degli ultimi decenni. Il concetto di “fatto sociale” ci sarebbe stato chiaro l’indomani quando presso il locale Sports club ( un ex circolo del golf abbandonat­o dagli inglesi nel 1963, al termine della stagione coloniale) si sarebbe svolta la ventiquatt­resima edizione del “Discovery Kenya”. Non è una semplice gara ma un gigantesco evento di corsa campestre aperto a tutti, adulti, bambini ( dai 3 anni in su), uomini, donne. Tanti i “fermo immagine” che arrivano dritti al cuore. Le famiglie accorse con l’abito della festa a vedere i figlioli darsi battaglia all’ultima curva, i maglioni sporchi e bucati dei bimbi di etnia Pokot arrivati da scuole periferich­e della regione dopo un viaggio durato ore. Tutta la Rift Valley mobilitata attorno alle speranze di 3 mila giovani atleti. Pochi di questi ragazzi saranno notati dagli osservator­i, ancor meno diventeran­no veri campioni ma al Discovery bisogna esserci, perché qui correre, e vincere, è qualcosa che può salvarti la vita. Molti non hanno le scarpe, affidano alle nude piante dei piedi la lettura del suolo, natura contro natura. Ai keniani piace ribaltare le regole della corsa e spesso hanno ragione. « Ma talvolta no » riprende Rosa. « Vede, la prima sfida per me, quando

sono arrivato qui, è stata far capire loro come si dovevano allenare, che dovevano mangiare bene e riposare » . Facile a dirsi ma non a farsi, visto che tanti fanno lavori duri per portare soldi a casa. Allevano bestie, lavorano i campi e nel tempo libero corrono, ovunque, per il gusto di correre. Un’abitudine “genetica” ereditata dai loro avi Masai. Al mattino presto o prima del tramonto li vedi volare sugli sterrati, evitando le pecore che occupano la carreggiat­a, o sul ciglio della statale che porta da Eldoret verso Nairobi. « Quel che sappiamo è che i keniani consumano di meno rispetto ai caucasici, riescono a mantenere ritmo e velocità su distanze più lunghe » , continua Rosa. Tradotto significa che arrivano al traguardo con più benzina in corpo di qualunque avversario bianco. Seguirne l’allenament­o è un’esperienza emozionant­e. Dopo un illusorio tentativo di corrergli al fianco almeno per qualche metro, gli andiamo dietro con l’auto. Danzano con leggiadria e il minimo sforzo fisico su percorsi accidentat­i, mentre respirano la polvere rossa e densa alzata dalle macchine e dalle moto che sfrecciano senza pietà.

I centri. È il mese di gennaio, la stagione secca, una maledizion­e per i polmoni.

In alto, il medico Gabriele Rosa nel complesso scolastico di Kapsabet, dove hanno studiato molti ragazzi che sono poi diventati grandi corridori. Sopra, l’elenco degli allievi che si sono distinti in diverse competizio­ni internazio­nali di maratona,

all’ingresso della scuola di Kaptabuk. In alto a destra, foto di gruppo a un raduno di

atletica. In basso a destra, un atleta nella sua camera nel “training camp” di Kapsait. Non c’è dubbio che chi corre in queste condizioni, per di più a 2- 3.000 metri d’altezza, parta con un vantaggio non indifferen­te. Ma questo non è l’unico segreto. Si farebbe torto alla capacità dei keniani di sopportare la sofferenza, di sottoporsi a sedute d’allenament­o estenuanti. Li vedi lì, in gruppo, disciplina­ti, uniti e ti chiedi come possa esserci tanta armonia in un gruppo in cui, com’è giusto che sia, tutti vogliono primeggiar­e. « Il talento lo vedi nel gruppo » , riprende Rosa, « ed è il gruppo che decide chi è pronto per una gara e chi non lo è, questo fa sì che non ci sia insana competizio­ne tra gli atleti. È il motivo per cui anni fa ho pensato a creare dei training camp dove i ragazzi potessero stare tutti insieme, crescere insieme » . Oggi il “Rosa Nike Team” ha due grandi centri di proprietà, a Kapsait e Kaptagat ( rispettiva­mente a 2.800 e 2.400 metri d’altezza) ed altri 4 affittati. Kaptagat è stato completato nel 2011 e può ospitare fino a 40 atleti. Come si suol dire, ha tutti i comfort, stanze, docce, ristorante, sala relax, il centro di fisioterap­ia. Gli atleti che devono preparare una gara vengono a stare qui 3- 4 mesi prima dell’evento e si allenano nel circondari­o. I percorsi non mancano, caratteriz­zati da un eterno saliscendi che spezzerebb­e la resistenza di

chiunque e, a onor del vero, da panorami unici al mondo. La permanenza nel camp costa ad ogni atleta 100 dollari al mese, che vengono solitament­e scalati dal compenso per le vittorie. Ma aiuti, sotto forma di borse di studio e sussidi non vengono negati a nessuno.

I nemici dell’atletica. La filosofia di Rosa e dei suoi finanziato­ri ( Nike in primis) è quella di fidelizzar­e i giovani alla corsa e al team senza sacrificar­e l’istruzione scolastica. Infatti vicino al camp di Kapsait ( struttura gestita dall’ex maratoneta Eric Kimaiyo) nascerà presto una sorta di “scuola secondaria” dell’atletica, per ragazzi tra i 14 e i 18 anni. Forse è una vita un po’ eremitica, ma nel Kenya di oggi, per tanti giovani, questa può essere la via della salvezza e del riscatto. « Altrimenti in pochi anni il fenomeno della corsa keniana potrebbe scomparire del tutto » , dice Claudio Berardelli, l’allenatore che segue gli atleti del team durante tutto l’anno. « I ragazzi qui sono distratti dalle stesse “passioni” dei coetanei di qualunque altra parte del mondo, sono pochi quelli che accettano di concentrar­si solo sull’attività sportiva » . Un nemico estremamen­te insidioso è l’alcol, un altro il sesso senza regole. Rosa ha già perso due atleti a causa dell’Aids, un terzo si sarebbe suicidato, anche se le circostanz­e della morte non sono state mai chiarite. « Talvolta gli uomini deludono » : è ancora Gabriele Rosa a parlare. « Per questo penso che il futuro del Kenya sia nelle mani delle donne. Oggi abbiamo un 25% di atlete, tutte molto forti ed estremamen­te serie. Per noi è un’ennesima grande vittoria se si considera come ve-

Allevano bestie, lavorano i campi e nel tempoliber­o corrono, ovunque, per il gusto di correre. Un’abitudine “genetica” ereditata dai loro aviMasai

nivano trattate le donne qui fino a pochi anni fa… » . Peccato che un colpo basso il team lo abbia ricevuto di recente proprio da una delle sue atlete di punta, Rita Jeptoo, vincitrice per tre volte della maratona di Boston e due volte quella di Chicago. La notizia della squalifica per doping della Jeptoo ( due anni) è arrivata proprio mentre eravamo a Eldoret. « Claudio ( Berardelli, ndr) la curava e le stava vicino, quando seppe della sua positività all’Epo ha pianto come un bambino, lo ha preso come un tradimento » , spiega il Dottore. Rita fu scoperta per caso, lo scorso settembre, pochi mesi dopo l’entrata in vigore dell’ultima e più avanzata tecnica di controllo antidoping varata dalla Wada nota come “passaporto biologico” ( si monitorano nel tempo i valori del sangue degli atleti prendendo come riferiment­o i loro dati biologici di partenza, ndr). « Rita era una nostra atleta, come capirà ci siamo dovuti difendere, qui avevano cominciato tutti a dire che la colpa dell’introduzio­ne del doping in Kenya era dei medici e dei manager stranieri ( il figlio di Rosa, Federico, gestisce circa duecento atleti keniani, ndr). Invece sono i medici e i farmacisti keniani senza scrupoli i veri colpevoli » . I cachet destinati ai maratoneti più forti fanno gola. Un atleta in grado di vincere un certo numero di gare importanti può portare a casa anche 500.000 euro l’anno, consideran­do che qui lo stipendio di un insegnante è pari a 10.000 scellini al mese ( circa 100 euro), non è strano che qualcu- no abbia fiutato il business. Alcuni nomi di medici e farmacie locali sono già noti alle autorità ma finora è sempre mancata la flagranza del reato, cioè la prova della consegna delle sostanze proibite. Visitiamo una delle rivendite infedeli che ci sono state indicate. Si trova su Oloo street, al centro di Eldoret. Mesi fa fu organizzat­a dalle autorità una messinscen­a con due atleti che si finsero interessat­i a comprare Epo ma poi il farmacista subodorò la fregatura e la vendita saltò.

Rischi e rimedi. Scenari foschi si aprono per il Kenya. Il Paese africano non è attrezzato per contrastar­e la piaga più grande dello sport moderno, sempliceme­nte perché pensava di esserne immune. Qui si fanno solo i test per l’urina, il sangue viene spedito in Sudafrica o a Losanna, in Svizzera. Ma tutto sta per cambiare. « Ho presentato una proposta di legge che prevede due anni di galera per gli atleti che

Il Kenya non è attrezzato per contrastar­e la piaga del doping, pensava di esserne immune. Ora c’è una proposta di legge che prevede due anni di galera per gli atleti che si dopano

si dopano e rifiutano di collaborar­e e la chiusura immediata delle farmacie che vendono sostanze proibite » , spiegaWest­ley Korir, maratoneta che siede dal mese di marzo del 2013 nel Parlamento keniano. Questo non risolve, però, il problema dei controlli. In casa Rosa, per ovvie ragioni, l’urgenza è massima. È già arrivata una macchina per il controllo dell’ematocrito ( chi scrive ha offerto una goccia del proprio sangue per il test n. 1) « così ora faremo tre esami al mese a ognuno di loro e voglio vedere chi sgarra » , si inalbera il Dottore. A Eldoret non ci sono monumenti, i veri monumenti sono le case degli atleti, provate a chiedere un’indicazion­e stradale, vi diranno « … subito dopo la casa di Tanui giri a sinistra » . Se vengono meno la fiducia e il rispetto di questo Paese verso l’atletica forse l’atletica non ha più ragion d’essere.

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 ??  ?? Piccoli, grandi campioni A sinistra, un raduno di piccoli atleti, in Kenya, dove alcuni corrono a piedi nudi. A destra, una fase di una gara di mezza maratona, corsa all’inizio di quest’anno nel
distretto di Eldoret, a circa 2.000 metri di altitudine...
Piccoli, grandi campioni A sinistra, un raduno di piccoli atleti, in Kenya, dove alcuni corrono a piedi nudi. A destra, una fase di una gara di mezza maratona, corsa all’inizio di quest’anno nel distretto di Eldoret, a circa 2.000 metri di altitudine...
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 ??  ?? Note di merito (sportivo)
Note di merito (sportivo)
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Jepkosgei, specialist­a nella mezza maratona, e Eunice Sum,
campioness­a negli 800 metri. «Il futuro del Kenya è nelle mani delle donne»,...
A sinistra, viene fissato il pettorale a un giovane corridore prima di una gara. Qui accanto, da sinistra, Janeth Jepkosgei, specialist­a nella mezza maratona, e Eunice Sum, campioness­a negli 800 metri. «Il futuro del Kenya è nelle mani delle donne»,...
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