Mikhail Baryshnikov
A Milano, in gran segreto, il regista texano dirige la superstar del balletto nei Diari di Nijinsky, il più grande ballerino della Storia: «Furono il suo manifesto». Ecco come due artisti geniali hanno voluto metterli in scena
Immagina l’articolazione di un ginocchio che si apre, oppure un fiore che si schiude. Così ho concepito questo lavoro » . Chi parla è il visual artist texano Bob Wilson e quanto sopra è la descrizione più dettagliata di Letter to a man che abbiamo desunto durante un’estenuante colazione alla Triennale di Milano tra due leggende viventi: lui, il regista, scultore, pittore, commediografo autore della fantasia di cui sopra, e Mikhail Baryshnikov, superstar della danza, attore impeccabile, performer d’eccezione. Reduci da una collaborazione in The Old Wo- man, ( in cui Willem Dafoe e Baryshnikov interpretavano due aspetti della medesima persona), il gioco dei due commensali si spinge più in là. Li unisce una passione: i Diari di Vaslav Nijinsky, il dieu de la danse, l’eroe dei leggendari Ballets Russes, pupillo e vittima del fatale Sergei Diaghilev, l’impresario onnipotente che reagì al matrimonio del suo amante con l’ungherese Romola de Pulszky con implacabile ferocia: il mondo intorno a Nijinsky divenne terra desolata, la sua fragilità mentale scivolò nella follia ( suo fratello maggiore era schizofrenico), i lunghi ricoveri e le devastanti cure psichia- triche fuori controllo fecero il resto. « I Diari furono scritti in sei mesi, nel 1919, nel pieno del tracollo. Non aveva nemmeno trent’anni » , esordisce Baryshnikov, « sono il manifesto sofferto di un artista immenso. Henry Miller ne era entusiasta e lo definì il libro più eccitante ed onesto che avesse mai letto. Nijinsky è stato un artista unico: per la sua ricerca spasmodica della perfezione, i suoi lineamenti esotici, per la sua muscolatura possente che gli permetteva per esempio di eseguire in scioltezza lo Spectre de la rose ( il balletto su musiche di Carl Maria von Weber portato in scena nel 1911, ndr)
Intervista esclusiva
Al Teatro Crt, incontro dietro le quinte delle prove per il nuovo spettacolo
che richiede una forza fisica eccezionale. Ne parlo con cognizione di causa perché mi capitò di eseguirlo con Margot ( Fonteyn, ndr). Devo dire che non ho mai nemmeno pensato di portare in scena il suo Fauno con cui iniziò la rivoluzione della danza ( L’aprèsmidi d’un faune, coreografia concepita e interpretata da Nijinsky nel 1912 su musiche di Claude Debussy, ndr). Non mi ritenevo adatto e non avrei saputo da dove cominciare ( la coreografia “scultorea” prevedeva che il protagonista eseguisse pose plastiche di profilo, avvolto in un costume ‘ plus que nu’, come scrissero i giornali all’epoca. Terminava con dei gesti che furono intesi come la simulazione di un atto di onanismo, ndr). Però esattamente 50 anni fa, durante la prima rappresentazione a scuola, mi calai nei panni di Petrushka ( la maschera-burattino della tradizione russa che Igor Stravinsky trasformò nel 1911 per la compagnia di Diaghilev in uno dei balletti più famosi, ndr) » .
Vite parallele. Entrambi sono solidali nel sostenere che lo spettacolo non si risolve nella mise en scène dei Diari, i cui testi sono adattati da Christian Dumais- Lvowski, e in nessun modo si deve cedere all’equazione Nijinsky- Baryshnikov. Non deve essere concepito come un’esibizione di danza. Né « si deve parlaredi coreografia in senso tradizionale o credere che il performer indosserà i costumi originali di Nijinsky » . Occhiali azzurrati, abito grigio impeccabile, camicia bianca slacciata, non serve porre a Baryshnikov domande dirette che intendano indagare il rapporto tra interprete e personaggio d’ispirazione a cui risponde in modo asciutto. D’altra parte siamo qui a Milano in un momento scomodo per i due artisti: quasi nulla dello spettacolo è stato definito ed estorcere informazioni dettagliate che possano gratificare chi scrive si risolve in una frustrazione reiterata. Meglio optare per l’ascolto attento del flusso verbale per cui è straordinariamente versato che sottolinea le corrispondenze, involontarie ed elettive, con la vita di Nijinsky: l’infanzia drammatica sia del piccolo Vaslav, avvolta nella povertà estrema aggravata dall’abbandono del padre, che dell’undicenne Mikhail rimasto senza la mamma; la formazione presso l’implacabile accademia del Marinsky- Kirov ( il teatro imperiale cambiò nome sotto Stalin) a San Pietroburgo- Leningrado sotto l’occhio vigile degli agenti dello zar ( Nijinsky) e del Kgb ( Baryshnikov); la fuga di entrambi verso Occidente alla ricerca della libertà artistica a cui segue un successo eccezionale che li colloca nell’empireo della danza. Come successe anche a Rudolf Nureyev, il terzo fenomeno del XX secolo.
Il codice Nijinsky. L’appassionata rievocazione della vita di Nijinsky evidenzia il fascino che il predecessore ha esercitato sul nostro interlocutore nel corso della sua carriera: « Ho interpretato quasi tutti i suoi ruo-
li, classici e non; ho trascorso molto tempo con Romola, la moglie, ho persino viaggiato con lei. Per quanto sia impossibile calarsi nella mente di una persona, tuttavia è lei che ha trascorso la maggior parte del tempo con Nijinsky ed è con lei che ho avuto le discussioni più profonde su di lui. Molti l’hanno criticata per i suoi comportamenti tuttavia per il solo fatto che ha trascorso una vita intera, fino alla fine, accanto a un uomo così disturbato la rende meritevole di grande rispetto. Per lui è stata senz’altro una salvezza e per me lei merita una medaglia. Letter to a man ( che presentano prima a Spoleto a luglio e poi al Teatro Crt di Milano a settembre ndr) inizia nel 1945 quando i Nijinsky si trovano a Budapest a casa di lei a causa della guerra » .
Voci e lingue diverse. Soprattutto non si può dimenticare che Nijinsky ha fornito l’archetipo di un genere che Baryshnikov ha portato all’estremo: ha introdotto il codice dell’attore- danzatore che cessa di essere un comprimario, un semplice sollevatore di ballerine eteree, e ha liberato il balletto da orpelli e sentimentalismi. Ha adottato coreografie ultramoderne trasformando il suo corpo in un’adeguata risposta al cubismo: « Nijinsky ha conosciuto ogni tipo di estremo. Ha saputo combattere un’infanzia difficile, ha assaporato la vittoria e il calice amaro del fallimento, ha combattuto per la sua arte assolutamente nuova. Ha convissuto con la sua psicosi. Il suo è un libro che parla di come essere un uomo, della sua relazione con la vita, la danza, la natura e con Dio. Per sottolineare tutti questi livelli di significato anche la mia voce adotta registri differenti, persino lingue differenti: russo, inglese, italiano… » . A questo punto Bob Wilson con pazienza, per alleviare il nostro sconforto, chiarisce con uno schizzo la descrizione dello schema iniziale e cerca di offrire una traccia in cui orientarci: « Lo spettacolo sarà in tre parti, ognuna diviso in tre atti: ogni parte inizia sempre da A, ovvero il ritratto stretto ( Portrait); poi c’è B, uno still life, ovvero una visione più ampia, e infine C, il paesaggio ( Landscape). Ogni atto è introdotto da un breve prologo e man mano che procede il nucleo si schiude e la prospettiva si espande. Sono un visual artist, e l’ho concepito così. Non riesco a lavorare se non conosco lo spazio entro cui opero. A ogni atto simile, per esempio A, corrisponde un livello visivo e testuale » ( vedere disegno a pag. 41). È giunto il momento di chiedere chi tra i due prevalga nel making of dello spettacolo, chi sia il maestro delle cerimonie. Si additano a vicenda, ma la risposta dell’attore- danzatore è più perentoria: « È lui che fa schioccare la frusta » . « È una collaborazione » ribatte invece Bob Wilson, « Mikhail è un one-man-show e si tratta di trovare il modo migliore per esprimere le varie personalità che albergano in una sola persona. Uno più uno non fa sempre due. A volte due sono in uno solo ( come indica ancora il disegno, ndr). Mikhail è l’uomo perfetto per questo scopo: sa essere neoclassico, tragico, romantico, può essere diretto o formale… è come un prisma. È un grande performer in grado di attrarre la concentrazione e trascinare il pubblico nel suo mondo. Questo è un lavoro pieno di passione, poetico e coinvolgente perché in ognuno di noi si trovano varie personalità. Una volta uno psichiatra mi raccontò una storia: erano spariti dei soldi durante una seduta, in un momento in cui il medico si era assentato. Sapeva chi era il responsabile, ma il reo negava. Successivamente lo ipnotizzò e chiese al paziente come recuperare i soldi che erano spariti. Saltarono fuori: vedi, mi disse, finché era un ladro non poteva restituire la refurtiva » . Il pubblico, dicono, dalle proprie emozioni trarrà le proprie conclusioni. « Il teatro è materia grezza » , dice Baryshnikov, « non come un film che è stretto tra confini più rigidi » . Il pranzo è terminato. Per la concentrazione non abbiamo toccato nulla, nemmeno l’acqua. Il protagonista unico e poliedrico dello showsi alza: deve riscaldarsi prima delle prove. Il suo viso si contrae in una smorfia di dolore mentre porta la mano alla schiena: « È stato più semplice parlare con te che alzarsi da questa sedia » , dice. Chissà quale Mikhail sta parlando. Speriamo si tratti dell’attore.
« Henry Miller era entusiasta dei Diari » , dice Baryshnikov, « lo definì il libro più eccitante che avesse mai letto » . Machi, fra regista e performer, comanda? È una partita tutta da vedere