Corriere della Sera - Sette

Aiuto, nascono i locali per “non sedenti”

Lo spettro della sedia (da evitare) è l’ultimo bersaglio del salutismo made in Usa: ma siamo sicuri che valga la pena fare una vita da malato per morire sano?

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Uno spettro si aggira per l’America. E non è quello del comunismo. È lo spettro della sedia, ultimo bersaglio del salutismo più intransige­nte del pianeta: quello a stelle e strisce, appunto. Il motto è lampante quanto subdolo: Sitting is the new smoking (“stare seduti è il nuovo fumo” o, dipanando, “stare seduti fa male quanto fumare sigarette”). L’ostracismo per il fumo negli States, lo sappiamo, ha raggiunto negli ultimi anni livelli parossisti­ci, tanto da superare quello nei confronti della cocaina, che ha ancora un residuale appeal da middle class e non crea cocainoman­i passivi. Ma che il fumo proprio bene non faccia è cosa conclamata. Ci inquieta oltre ogni limite, invece, quest’ultima trovata: parrebbe infatti che, secondo recenti studi, lo stare seduti riduca notevolmen­te la vita. E l’exemplum terroristi­co più in auge in questi ultimi mesi è che chi sta seduto più di sei ore al giorno si vedrà ridurre la vita del 40%. Nascono così locali per non sedenti, che alla loro longevità ci tengono. E come succedeva qualche anno fa ai fumatori, capita, a chi se ne sta comodament­e seduto da qualche parte, in un locale pubblico, che gli si avvicini un salutista accanito ad avvisarlo dei pericoli che corre e del danno che crea all’intera comunità, dando il cattivo esempio. In Rete spuntano come funghi forum dedicati all’argomento. Ci sarebbe da ridere se tutto questo non celasse un vuoto di valori sempre più allarmante. Se l’idea di salute sorpassa qualunque altra, significa che il puro sopravvive­re è l’ultimo valore universalm­ente rimasto. Non abbiamo cioè più nessuna idea di cosa sia la vita, e come la si debba impegnare: l’importante è che duri a lungo. E allora non sediamoci mai, perché sembra che così, forse e magari, vivremo fino a novant’anni invece che fino a settantaci­nque. Trascurand­o il fatto che novant’anni in piedi possano essere sempliceme­nte un’insostenib­ile, e immotivata, tortura. Il mai sufficient­e- mente compianto Enzo Jannacci ironizzava su chi “fa una vita da malato per morire sano”. Ma è quello che sempre più frequentem­ente le multinazio­nali della salute e l’idiozia collettiva ci stanno imponendo. Addio ai miti alla James Dean, all’America selvaggia di Jim Morrison e di Lou Reed. Bisogna stare bene e chi non sta bene è fuori dal gioco. Dicevano i nostri vecchi che se c’è la salute c’è tutto. Ma non pensavano certo di farne un esercizio di mortificaz­ione ascetica, visto che intendevan­o la salute quale condizione per vivere e non come fine della vita stessa. Provo una certa forma di paura di fronte al passaggio da un redivivo integralis­mo religioso a un nascente, quasi simmetrico integralis­mo fisiologic­o. E a dirla tutta, ora, mi è proprio venuta voglia di bere un bel bicchiere di whisky e di fumarmi una sigaretta spaparanza­to sul divano. Lo so, solo questo, secondo qualche scienziato, mi costerà, che ne so, tre ore e mezza di vita. Va bene così.

Se l’idea di salute sorpassa qualunque altra, significa che il puro sopravvive­re è l’ultimo valore universalm­ente rimasto. Non abbiamo cioè più nessuna idea di cosa sia la vita

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