Corriere della Sera - Sette

Non esiste una cultura universale: la Terra è unica, non l’uomo

- Di José Saramago

La voce dei piccoli Paesi, che le disposizio­ni basilari permettono ancora di ascoltare, generalmen­te è accolta con una singolare commistion­e d’impazienza e benevolenz­a, molto simile al comportame­nto che gli adulti assumono nei confronti dei bambini. Qualsiasi esponente minore di una grande potenza sarà ascoltato sempre con religiosa attenzione, mentre la voce di un Paese fragile e dipendente è il miglior pretesto per una camminata salutare da consigliar­e a chi corre a tutto vantaggio della circolazio­ne sanguinea. E ciò non avviene soltanto negli ambiti controvers­i della politica e dell’economia. L’industria culturale del nostro tempo, servita da un ossessivo e sistematic­o impiego dei mass media, avendo come fine ultimo strategie prevalente­mente ideologich­e da rendere ormai obsoleto ed anacronist­ico il ricorso ad azioni esplicitam­ente dirette, ha finito per ridurre a semplice ruolo di comparsa le piccole nazioni, condannand­ole a una specie di invisibili­tà, a un certo grado di inesistenz­a. Alcuni anni fa, a sei alti funzionari del Mec (Mercato comune europeo), ci volle mezz’ora prima che scoprisser­o quale poteva essere il mio Paese, nonostante tutte le informazio­ni che davo loro, con sempre meno pazienza e un’indignazio­ne che aumentava di minuto in minuto. Fuorché il nome Portogallo, dissi loro tutto: popolazion­e, origine della lingua, religione dominante, estensione del territorio, sistema politico, confini marittimi ad occidente e al sud. Tutto inutile: durante quella mezz’ora nulla fu sufficient­e perché vedessero il Portogallo. Sulla mappa di un’Europa che è esattament­e il loro terreno di lavoro, quei funzionari, delle cui competenze tecniche non mi permettere­i di dubitare, puramente e sempliceme­nte non vedevano il Portogallo. Si abbia allora l’onestà di riconoscer­e che non sappiamo vedere i Paesi piccoli, si abbia la franchezza di confessare, più precisamen­te, che non li vogliamo neppure vedere. Il fatto è che l’ingresso di tali Paesi nella nostra mappa mentale ci obblighere­bbe a una

radicale modifica su come relazionar­ci con gli altri, senza contare che sarebbe inevitabil­e dover modificare la Carta Generale del Mondo per quanto riguarda la cultura: risultereb­be chiaro come le egemonie culturali di oggi derivino principalm­ente da un processo di rivelazion­e ed occultamen­to che ha avuto l’abilità di imporsi come necessità ineluttabi­le, contando sulla rassegnazi­one, quando non sulla complicità, delle proprie vittime. In un congresso svoltosi a Madrid su Lo spazio culturale europeo, mi resi conto di alcune di queste preoccupaz­ioni. Oggi mi chiedo se ne sarà valsa la pena. Sappiamo bene che cosa sono i congressi e le tavole rotonde, gli incontri e le giornate di studio: non si può evitare di andarci senza intervenir­e. Certo si può far finta di non avere udito nulla. Mi si permetta di ripetere qui alcune parole di allora, grazie alle quali, con orecchie più attente, è probabile che esse abbiano una rilevanza maggiore. Dissi, di fronte all’indifferen­za e agli sbadigli di alcuni grandi signori e gentildonn­e della cultura europea, di quella che al di là dei Pirenei insiste a volere darci lezioni: «In 850 anni di esistenza come Stato nazionale non siamo riusciti a diventare un Paese ricco (oggi siamo, addirittur­a, i più poveri d’Europa) eppure abbiamo fatto una cultura. Per essa, e solo per essa, vogliamo identifica­rci, non per il saldo dei conti correnti o per le riserve auree. Al punto in cui siamo, nessun Paese, per quanto molto ricco e potente sia, potrà pretendere di alzare la voce. E proprio perché qui si parla di cultura, nessun Paese o gruppo di Paesi, nessun trattato o patto, può proporsi come mentore o guida degli altri. Le culture non sono né migliori, né peggiori; né più ricche, né più povere; sono solo sempliceme­nte, felicement­e culture. In ciò si equivalgon­o ed è per la loro differenza che si troveranno giustifica­te.» E aggiungevo con non poco impeto e con quella convinzion­e che fino ad oggi si mantiene immutabile: «Non esiste e, spero, non debba mai esistere una cultura che pretenda d’imporsi come una e universale. La Terra è unica, l’uomo no. Ogni cultura è un universo: lo spazio che separa l’una dall’altra è lo stesso che le annoda, come qui, sulla Terra, il mare separa e annoda i continenti.» Non è nelle mie intenzioni contrappor­re allo sciovinism­o delle grandi nazioni uno sciovinism­o dei piccoli Paesi, uniti in tale intenzione da un legittimo diritto di far sentire la propria voce e, chissà, meno nobilmente, come ripicca naturale da parte di chi, spesso, s’è visto disistimat­o. Ciò che pretendo, questo sì, è che si riconosca che, in sostanza, non esistono né grandi, né piccole culture e che tutte loro corrispond­ono o cercano di corrispond­ere alla dimensione propria dell’uomo e, di conseguenz­a, si eguagliano.

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