Quella Giordania nemica dell’Isis nasce dopo il ‘18
Il Paese che ora lotta contro il Califfato è lo stesso di re Abdallah I, che spinse il padre a tradire gli Ottomani per allearsi con gli inglesi
Re Abdallah II di Giordania ha ben in testa la storia di famiglia. È la storia della dinastia hashemita: antica, mitica, venuta dal profondo della tradizione araba. Il fondatore fu Hashim Ibn ‘ Abd Manaf, leader tribale, bisnonno del Profeta Maometto, morto circa nel 511 dopo Cristo , ancora in era preislamica. Il primo a raccontargliela da bambino fu il padre, “il piccolo re” Hussein, che determinò le sorti della monarchia dal 1952 alla sua morte per tumore nel 1999. Ed è stato lui più di ogni altro a glorificare nell’immaginario del figlio la figura del bisnonno, si chiamava Abdallah come lui, il guerriero che si batté a fianco di Lawrence d’Arabia contro gli Ottomani durante la Prima guerra mondiale, consapevole della necessità di collaborare con le potenze occidentali, ma poi vittima del loro tradimento, così come rivelato clamorosamente dei bolscevichi a Mosca subito dopo che la rivoluzione del 1917 aveva permesso loro di entrare in possesso delle carte segrete dello Zar e venire a conoscenza degli accordi Sykes- Picot. E infine assassinato da un nazionalista palestinese a 69 anni, sulla spianata delle moschee a Gerusalemme. Re Hussein ricordava la figura di “nonno Abdallah I” anche per il fatto che lui, non ancora sedicenne, gli stava al fianco quando venne ucciso. E in quella vicenda si riassumono i punti di forza, ma anche e soprattutto le fragilità, le paure, le incertezze dei reggenti giordani sino ai nostri giorni. Governano uno “Stato cuscinetto” posto nel mezzo di crisi endemiche. La Giordania è profondamente legata nella sua genesi alle vicende generate dal conflitto 1914- 18. Anche gli eventi più recenti non fanno che confermare la sua strutturale insicurezza. A nord- est il caos siriano, i timori che cellule militanti dello Stato islamico ( Isis) possano entrare in Giordania mischiate al quasi milione e mezzo di profughi arrivati dal 2011 ad oggi. Più a sud l’Iraq non è da meno. Segue il lungo confine con l’Arabia Saudita. Qui le cose vanno meglio, eppure da sempre transitano, tra pellegrini e commercianti, anche fanatici wahabiti e salafiti, i puristi sunniti della parola del Profeta, gli alleati dei Fratelli musulmani locali, che in passato non hanno esitato a soffiare sul fuoco del malcontento beduino verso le “mollezze” e i gusti filo- occidentali imperanti alla corte di Amman per fomentare rivolte e sovversione. Infine il confine più delicato, quello a nord con la Cisgiordania e Israele. « La questione palestinese ha definito l’identità giordana e l’ha addirittura preceduta, sin dai tempi della Dichiarazione Balfour nel 1917. I giordani di origine palestinese costituiscono ben oltre il 50 per cento della nostra popolazione. Non si può comprendere la Giordania se non si tengono a mente i palestinesi, siamo simmetricamente l’altra sponda rispetto a quella occidentale del Giordano che porta a Gerusalemme » , ci spiegava pochi giorni fa Mustafa Hamarneh, noto ricercatore del Centro di studi strategici di Amman e oggi membro del parlamento.
Su fronti diversi. Tali debolezze sono emerse evidenti anche nelle ultime settimane in seguito alla vicenda di Muath Kasasbeh, il giovane pilota giordano che Isis avrebbe bruciato vivo ( così almeno vorrebbe farci credere nel video diffuso ai primi di febbraio) dopo che il suo aereo era caduto nelle vicinanze della cittadina siriana di Raqqa il 24 dicembre. In un primo tempo re Abdallah II tratta con Isis, addirittura si dice pronto a uno scambio di prigionieri pur di avere indietro vivo il pilota. Nel frattempo la Giordania è in subbuglio. Il padre dell’ostaggio, noto leader tra i clan tribali che sono la spina dorsale della monarchia, minaccia di scatenare la rivolta civile se il figlio non sarà liberato. « La guerra contro Isis non è la nostra guerra » , dice ai giornalisti. Poi però arriva il video del martirio del pilota e allora, repentinamente, lo scenario cambia in modo radicale. Re Abdallah II riprende a schierarsi pubblicamente con gli americani, intensifica i raid aerei, le tribù sono con lui, Isis torna ad essere il nemico numero uno. Le de-
Dal nostro inviato nella Grande guerra / 41
Il ruolo strategico della monarchia hashemita
bolezze di ieri diventano le forze di oggi. Ancora una volta la casa reale hashemita naviga a vista tra i marosi di una regione ostile, nemica delle sue ancestrali simpatie per l’Occidente. Un poco come fece re Hussein nel settembre del 1970, che si era adattato a sostenere la causa palestinese, nonostante la clamorosa sconfitta nella Guerra dei sei giorni tre anni prima gli avesse fatto perdere Gerusalemme e l’intera Cisgiordania ( la parte più ricca del suo regno). Ma poi, quando si rese conto che l’Olp di Yasser Arafat stava per eliminarlo per impadronirsi del Paese, optò per lo scontro frontale: le sue truppe scelte beduine uccisero migliaia di palestinesi ( si arriva ad ipotizzare sino a 20.000). E da allora divenne il “padre” indiscusso della Giordania della “sponda orientale”.
Le simpatie occidentali. Suo nonno era stato costretto a mosse altrettanto radicali. Tanto che non sarebbe scorretto definire gli Hashemiti come una dinastia di sopravvissuti, che danno il loro meglio di fronte alle peggiori avversità. Fu infatti il giovane Abdallah I che durante la Grande guerra spinse con determinazione il padre, Hussein Bin Ali, meglio noto come Sceriffo della Mecca e dell’Hejaz ( la regione occidentale della Penisola Arabica che corre lungo le coste del Mar Rosso), a tradire il patto di lealtà con gli Ottomani per allearsi con gli inglesi. La vicenda è nota. Ma sempre complessa da raccontare. Nel 1908 il sultano turco aveva voluto Hussein Bin Ali a governare lo Hejaz e i luoghi santi musulmani di Mecca e Medina. Il ruolo di quest’ultimo era estremamente delicato. L’Impero Ottomano restava in crisi profonda. Il nazionalismo arabo appariva in crescita, da Istanbul volevano un arabo conservatore che calmasse le folle e assicurasse la loro lealtà. Eppure, ben presto Hussein Bin Ali si scontrò con i Giovani Turchi, la nuova classe dirigente composta da tecnici e amministratori determinati a occidentalizzare l’Impe- ro, aprirlo al mondo e alle innovazioni tecnologiche. Di queste frizioni approfittarono gli inglesi, cercavano il leader appropriato che col suo carisma potesse fungere da catalizzatore del malcontento arabo contro gli Ottomani. Nei primi mesi del 1915 Londra sposò così la teoria del “Califfato” da utilizzare come ariete. Fu proprio Abdallah I ad incontrare per primo i dirigenti inglesi già nel 1913- 14. Poi il padre Hussein Bin Ali iniziò la celebre corrispondenza con Sir Henry McMahon, il responsabile britannico al Cairo. Tra il luglio 1915 e il marzo 1916 al leader arabo viene fatto credere che dopo la fine della guerra potrà governare su di una grande entità territoriale comprendente quelli che sono gli attuali Iraq, Siria, Libano, Giordania, Israele, territori palestinesi e la penisola araba. Ma tutto ciò sarà poi tradito dagli accordi internazionali, parte dei trattati di pace dei primi anni Venti. E Abdallah I dovrà accontentarsi del piccolo regno di Giordania dopo il ritiro inglese nel 1946.
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