Con Miles Davis è tutta un’altra musica
I grandi album del jazz: si comincia con KindofBlue
Quando si racconta di Kind of Blue, l’album che sta al jazz come Leonardo al Rinascimento, è impossibile resistere al suo fascino e alle leggende — alcune vere, altre un po’ meno — che lo accompagnano da più di mezzo secolo. L’occasione per riportare il nastro all’inizio di questa storia la offre la nuovissima iniziativa del Corriere della Sera, “The Jazz Years. I grandi album”, a cura di Ariel Pensa e Claudio Sessa, la cui prima uscita — dal 17 marzo prossimo a 6,90 euro, escluso il costo del quotidiano — è proprio Kind of Blue di Miles Davis, registrato a New York, nella primavera del 1959, in una chiesa sconsacrata e trasformata dalla celebre casa discografica Columbia in un perfetto studio di registrazione. Si riuniscono con Davis: John Coltrane, Bill Evans, Cannonball Adderley, Jimmy Cobb, Paul Chambers e Wynton Kelly. « È doveroso ricordarli tutti, perché questo disco, pietra miliare del jazz, con il suono del suo leader in evidenza, è comunque una operazione collettiva, dove incontriamo musicisti affermati e che hanno già dei grossissimi precedenti » , ricorda Stefano Zenni, musicologo e autore di svariati libri sulla storia del jazz. Zenni mette subito le cose in chiaro: « Kind of Blue è considerato da tutti come l’inizio del cosiddetto jazz modale, ma questo è parzialmente vero, in quanto sono al massimo due i brani che risentono di questa novità stilistica, e lo stesso Davis, dopo la registrazione di Kind of Blue, non sarà più tanto attratto dagli stimoli modali » .
Scatole cinesi. Diciamo che l’importanza dei cinque brani dell’album, incisi in due giorni differenti, e non in una sola seduta di registrazione ( una delle tante leggende che accompagnano il disco, smentita in un recente libro dell’americano Ashley Kahn nel quale affronta la genesi di Kind of Blue, e ricco di foto con gli stessi protagonisti) è nel loro essere un punto di passaggio, una sorta di elaborazione di idee che vengono da lontano. E da riscoprire a poco a poco. Come in un gioco di scatole cinesi. Già nel 1953, infatti, George Russel, pianista e teorico della musica, pubblica The lydian chromatic concept of tonal organization, nel quale scrive per la prima volta di improvvisazione modale. Non solo. « Il pianista Bill Evans, fortemente voluto da Davis per Kind of Blue e unico jazzista bianco del disco, è stato scoperto proprio da Russel— così come John Coltrane, diversi anni prima era stato in contatto con Russel — e sarà sempre Evans a scrivere le note di copertina del disco » , aggiunge Zenni. Al tempo stesso, l’album non è soltanto un lavoro sperimentale: i riferimenti al blues, infatti, non mancano. « Il blues è nel titolo e nelle sue atmosfere: non esistono brani veloci, ma lenti, al massimo medio lenti » , spiega Zenni. « Freddie Freeloader, la seconda traccia del disco, è un blues bello e buono, e per eseguirlo alla perfezione, Miles Davis chiama Wynton Kelly, il migliore sulla piazza » . C’è poi il “miracolo” del suono, decisamente caldo, senza riverberi o echi. Tutto ciò si deve alla bravura dei tecnici della Columbia, la casa discografica che ha appena fatto man bassa dei migliori jazzisti del tempo, mettendoli tutti sotto contratto: da Davis a Louis Armstrong, da Dave Brubeck a Duke Ellington. Nomi che ritroveremo in “The Jazz Years” del Corriere della Sera. Infine, So What, la traccia numero uno di Kind of Blue: nove minuti e ventidue secondi da leggenda. Con quella frase iniziale di Paul Chambers, gli accordi di risposta di Evans, e il genio di Davis, l’unico in grado di metterli insieme facendoli diventare il tema del pezzo.