Ayatollah sul piede di pace
I leader religiosi cercano di ricucire le divisioni interne. Per arginare l’Isis
L’invasione statunitense del 2003; la caduta di Saddam Hussein; anni di guerra civile settaria; la speranza di una lenta pacificazione e il nuovo oblio con l’avanzata dell’Isis. Questa la storia degli ultimi 12 anni dell’Iraq. Eppure, nelle scorse settimane si è assistito ad alcuni tentativi di ricucire le divisioni, con un obiettivo comune: sconfiggere le forze jihadiste e riportare la pace sociale, prima ancora che politica. È questo il senso degli appelli fatti dalla maggiore autorità sciita del Paese, l’Ayatollah Ali al Sistani il quale ha invitato la popolazione sciita a non gettare benzina sul fuoco di una situazione già fuori controllo. Del resto, la stessa ascesa dell’Isis a Mosul e in altre aree nord-occidentali dell’Iraq, è stata collegata anche al malcontento della popolazione sunnita (l’Isis, come tutti i movimenti jihadisti, è di stampo sunnita) rispetto all’emarginazione subita durante gli anni del dopo-Saddam, in cui le forze politiche sciite hanno estromesso quelle sunnite dalla vita pubblica irachena. E oggi, dunque, per combattere l’Isis si cerca di fare nuovamente affidamento proprio sulle milizie di estrazione sciita. Le città irachene sono piene di cartelloni che commemorano le vittime sciite degli scontri con i fondamentalisti, in quella che è ormai diventata una nuova guerra di cui non si scorge la fine. Ma la paura è che si possa soltanto incrementare il circolo vizioso delle atrocità da un lato e dall’altro. È per questo che le autorità religiose sciite — nonostante gli appelli a combattere l’Isis, in nome di una sorta di “guerra di religione” — invitano la propria comunità a non lasciarsi andare alla logica della vendetta personale, dell’“occhio per occhio, dente per dente”. Il tentativo di instillare nei propri fedeli gli ideali della “guerra etica” e della giustizia statale e non individuale, mira proprio a tentare di ricostruire un Iraq su nuove basi. In tale contesto, anche il coinvolgimento delle tribù sunnite, come già accaduto qualche anno fa, potrebbe risultare decisivo per la guerra all’Isis. Il problema di fondo è che, nel clima di conflitto diffuso, la società stessa si sta militarizzando e la cultura della guerra sembra pervadere le case irachene, riportando il Paese indietro di 30 anni, ai tempi della guerra contro l’Iran degli anni 80. Con la differenza che stavolta il nemico è in casa. Basteranno gli appelli dei clerici a sedare gli animi, quando questa nuova lunga guerra sarà finita?