Boccaccio, ovvero l’inventore dell’Isola
Per un lettore la malasanità non è nulla rispetto alla malagiustizia. E poi, la fatica “generosa” di leggere
Gian Antonio Stella sul n. 7 di Sette pone un atroce interrogativo: «È più grave una sentenza cosi medioevale da essere ridicola o è più grave che questa sentenza arrivi dopo un tempo inaccettabile per ogni altro paese civile?». La vicenda attiene ad una sentenza della Cassazione che ribalta una sentenza della Corte d’Appello di Venezia, secondo la quale non poteva essere risarcito il danno per il lavoro domestico che un uomo non può più svolgere, essendo fuori dall’ordine naturale, per un uomo, detta attività. Se si volesse, si potrebbe scrivere non un libro ma una enciclopedia sulla “malagiustizia”. Penso che la malasanità, confrontata alla malagiustizia, rappresenti una aspetto sì grave ma assolutamente marginale e fisiologico. Sentenze che arrivano dopo decenni, sentenze che richiamano principi, ammessi che tali fossero stati prima, ormai obsoleti, sentenze prive di logica. Quello che fa rabbia e che per avere questa “giustizia” il cittadino deve spendere somme spropositate. Vedasi il folle aumento delle spese di giustizia negli ultimi anni con aumenti anche della misura del 300%. Si era detto, quando era stato introdotto il contributo unificato, balzello che il cittadino deve pagare per poter avviare un giudizio, che il maggior costo sarebbe servito a migliorare il servizio giustizia. Si sa niente di dove quei soldi che il cittadino paga per introitare una causa effettivamente vanno a finire? Sono avvocato a Milano da circa trent’anni e ho potuto constatare come, causa scarsità di mezzi e uomini, disinteresse al problema, al di là dei bei proclami che vengono fatti all’apertura di ogni anno giudiziario, i tempi processuali tendono a peggiorare, così come la qualità delle sentenze. Se poi ci si sposta da Milano a sud i tempi diventano biblici. Basti considerare, esperienza personale, che al Tribunale di Castrovillari vi è stato un rinvio di oltre un anno solo per far sì che il fascicolo dell’accertamento tecnico, sempre presso lo stesso Tribunale, fosse trasmesso dal secondo al primo piano e circa di due anni è stato il rinvio all’udienza successiva per fissare l’udienza c.d. di precisazione delle conclusioni (me lo lasci dire un’udienza del tutto inutile), di modo che, in oltre tre anni, non si è ancora fatto praticamente nulla. E siamo solo al 1° grado. Al Tribunale di Taranto un rinvio di circa due anni solo per l’udienza di discussione e siamo nel rito del lavoro quello così detto celere. Anche in questo caso siamo solo al 1° grado. Inutile dire che i rinvii per le altre udienze sono stati ben oltre la tempistica prevista dal codice. Quando giustizia sarà fatta, ci si augura, a chi servirà?
— Avv. Vito S. Manfredi
Il falso dilemma “carta o digitale”, trattato nel suo ultimo editoriale, sottolinea le assai discutibili modalità del sondaggio e la sterilità del dibattito conseguente. Concordo: l’obiettivo è parlare dell’oggetto-libro, non del contenuto, per farci diventare «tanto consumatori e poco pensatori». Propongo un suggerimento. Proviamo a dar voce, su Sette, a chi respinge la “superficialità dei tempi”: per esempio, ricordando che quasi tutti abbiamo dimenticato il significato della parola “fatica” (restiamo nell’ambito dell’editoriale: leggere qualcosa che non sia d’immediata comprensione è una fatica, appunto...). Mi piace tornare all’etimologia, per far chiarezza. Fatica deriva dall’avverbio latino “fatim”, “abbondantemente, generosamente”. Quindi, fatica significa anche darsi con generosità. Siamo dunque diventati egoisti anche con noi stessi? In brutali termini economici, l’investimento intellettuale ed emotivo su noi stessi è oggi considerato fallimentare? Una Top10 delle parole che esprimono la nostra profondità non sarebbe male, no? Le Parole Ritrovate di Alessandro Masi già ci aiutano, ma potremmo moltiplicarle?
— Maristella Bellosta, Milano
Ho letto con interesse la recensione di Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani. Qualcuno dà importanza alla “cornice” del Decameron. Finalmente! Queste pagine serie del Decameron sono estremamente interessanti. E ancor più interessanti diventano se si confronta la descrizione della peste del 1348 con quella della peste del 1630, ne I Promessi sposi. Leggere solo le novelle è troppo riduttivo. E poi, permettetemi un’osservazione apparentemente irriverente, ma c’è chi dalle “cornici” del Decameron (che sono due: la peste in Firenze e la vita in villa della brigata) ha tratto un “business” di grande successo. Riflettete un attimo: dieci ragazzi, maschi e femmine, in una villa isolata, senza contatti con il mondo esterno, che si devono autogestire e devono trovare un modo di passare il tempo... a quale programma televisivo vi fanno pensare?
— Mariagrazia Deretti, S. Pellegrino Terme