Candidati trasparenti
/ L’aspirante sindaco ideale non deve avere né storia né curriculum né spigoli, e dire cose più vaghe possibili. Un po’ come gli you-tuber
Al duello organizzato da Sky – ma la Rai che fa? – sono stati mostrati a Giuseppe Sala e a Stefano Parisi due capolavori custoditi nella Pinacoteca di Brera, museo meraviglioso e spesso semideserto: a Sala hanno fatto vedere la Rissa in galleria di Boccioni, a Parisi la Cena in Emmaus di Caravaggio. Nessuno dei due ha indovinato il suo quadro. Poniamo però che Sala – o Parisi – avesse risposto esattamente. Dal punto di vista elettorale, gli avrebbe giovato? Certo che no! Sarebbe risultato antipatico, saccente, distante. Parliamoci chiaro: la selezione della classe dirigente è un problema drammatico in Italia. Non a caso le eccellenze – che sono per definizione poche – spesso vanno all’estero; i mediocri restano, e si trovano benissimo. Non dico che lo siano Sala e Parisi, che anzi hanno fatto una campagna elettorale bella, rispettosa: chiunque vinca, Milano avrà un buon sindaco. Ma è evidente che si è creato un clima di ostilità per chi ha una storia, un curriculum, un’esperienza. Il candidato deve essere trasparente, o liscio come uno specchio, in modo che ogni elettore possa proiettare su di lui se stesso, avere quasi l’impressione di votarsi. Prendiamo le due città in cui i 5 Stelle hanno avuto un risultato clamoroso: Roma, dove Virginia Raggi vincerà quasi sicuramente, e Torino, dove Chiara Appendino tallona Fassino. Nella Capitale i grillini – che in questi anni sono cresciuti, rispetto ai ragazzi spaventati visti tre anni fa in Parlamento – avevano sicuramente figure più note da spendere, con più carisma della Raggi ( non ci vuole molto): Di Battista sa parlare, Di Maio è un leader di sicuro avvenire. Invece hanno scelto un personaggio volutamente incolore, I candidati sindaco di Milano Stefano Parisi (a sinistra) e Giuseppe Sala. senza spigoli, che non fosse divisivo, da amare o da odiare; su cui ogni romano giustamente indignato con una classe politica fallimentare potesse proiettare la propria rabbia e la propria domanda di cambiamento. Ho sentito parlare dopo il primo turno Fassino e la Appendino. Oggettivamente, il confronto è imbarazzante. Non ne faccio una questione politica, il punto non è che uno sia di sinistra e l’altra no. È proprio un fatto di persone. Da una parte c’è un sessantenne che viene dalla scuola antica del Partito comunista torinese, è stato ai cancelli di Mirafiori con Berlinguer, ministro del Commercio estero e della Giustizia, segretario di partito, fondatore del Pd, sindaco per cinque anni, presidente dell’associazione dei Comuni italiani; e parla di Torino e dell’Italia con la consapevolezza che questa storia e questo curriculum gli danno. E vi assicuro che Fassino e io non siamo amici, abbiamo avuto scontri in passato, una volta – per dirne solo una – telefonò al direttore della Stampa e mandò una lettera durissima per protestare contro un articolo in cui raccontavo la contestazione ricevuta al corteo contro la guerra in Iraq. Però avete sentito parlare la Appendino? Ovvietà da convegno o da talk- show: bisogna puntare sulle piccole imprese, la sicurezza. La sua inesperienza amministrativa è oggettivamente totale. Ma come non vedere che questo elettoralmente è un grande vantaggio? Non si tratta solo del ricambio salutare e necessario: Torino poi è governata da oltre vent’anni dallo stesso sistema, un’alleanza tra quel che resta del Pci e quel che resta della Fiat. È proprio il marchio del nostro tempo: più sei leggero, giovane, fresco, sorridente, più piaci. Guardate gli you- tuber, tra cui molti recensori di videogame; più sono simpaticamente vuoti, più follower hanno. Intanto a teatro il più giovane ha cinquant’anni.