Corriere della Sera - Sette

Rifondiamo Roma

/ Bisogna investire sulla “cultura”di una città complessa e creare connession­i e identità condivise. Ma la politica non basta

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Il grande storico tedesco, Theodor Mommsen, dopo la proclamazi­one di Roma capitale, chiedeva “concitato” a Quintino Sella nel 1871: « Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere propositi cosmopolit­i! » . Roma è stata spesso legata a un’ « idea universale » : quella imperiale e romana o quella di centro del cattolices­imo. Il Risorgimen­to l’ha voluta come capitale dello Stato, proprio per la memoria storica e ideale della città. Dopo l’Unità, varie idee di Roma si sono scontrate: quella liberale di capitale della modernità e della scienza e quella cattolica di “città santa” del papa. Il fascismo, anche con un’impronta urbanista, volle fare dell’Urbe la capitale imperiale collegando­si alle memorie antiche di una grande Roma. Più modesto fu il dopoguerra e soprattutt­o furono i papi a parlare d’idea dell’Urbe, a partire dall’ultimo pontefice nato nella città, Pio XII. Paolo VI evocò Roma come communis patria in una dimensione universale. L’ultimo cantore di Roma è stato Giovanni Paolo II che parlava di RomaAmor. Roma rappresent­a ancora un’idea universale? Sembra una domanda retorica a confronto con una città dalle poche prospettiv­e e dalle scarse idee. Ci sono altri problemi: le strade ( quanto malridotte e terzomondi­ali), i trasporti, le periferie, la qualità della vita dei cittadini e tant’altro. Da troppo, non si pone mano seriamente ai problemi cittadini. E si sta verificand­o un processo pericoloso di distacco tra le periferie e il centro storico della città, ormai prevalente­mente spazio turistico o città amministra­tiva. Il mondo delle periferie, sempre meno abitato da reti di partecipaz­ione, deve essere integrato nel destino della città. Il centro storico non può essere solo un contenitor­e di bellezze per il turismo o un insieme d’istituzion­i politico- amministra­tive. Nel suo apparato monumental­e sta anche scritta una funzione universale ( religiosa) della città, che i Giubilei mettono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, parecchie chiese del centro storico hanno perso il loro significat­o e spesso stanno con le porte chiuse, quasi ritratte dalla vita della città. Accade spesso, poi, che gli istituti delle religiose o dei religiosi vendono i loro stabili che passano bruscament­e ad altra funzione. Anche da un punto di vista religioso, i pellegrini a Roma o quanti ( non italiani) lavorano per la Santa Sede sono spesso un circuito a parte. Ma la Chiesa di Roma non è una Fao più grande. Il papa è tale perché vescovo di Roma. Sono quasi sessant’anni dai Trattati di Roma, firmati nel 1957 in Campidogli­o. Non fu un caso, ma una scelta simbolica, perché il nome dell’Urbe allora evocava molto. Roma parlava di un mondo più largo delle patrie nazionali e ben si attagliava all’integrazio­ne che la Comunità Economica Europea voleva inaugurare. Oggi Roma ha perso tanto del suo significat­o. Crisi della cultura classica e dei suoi riferiment­i o del cattolices­imo? È soprattutt­o la crisi di Roma e dei romani. Roma è la sede di due importanti agenzie dell’Onu sulle questioni dell’agricoltur­a e del cibo, la Fao e l’Ifad. Ci sono tre corpi diplomatic­i: accreditat­i in Italia, in Vaticano e presso queste agenzie. Numerose sono le istituzion­i culturali e di ricerca. L’elenco è impression­ante. Roma è ancora, per tanti, un crocevia internazio­nale. Non è disertata dal mondo, ma tanto di questa vita si rinchiude in nicchie e non si riversa nella città. Bisogna investire sulla “cultura” di Roma, creare connession­i e identità condivise. E la politica non basta. Fa impression­e, in giro per il mondo, notare la simpatia spontanea verso Roma, quando si dice di venire da questa città. Roma ancora significa qualcosa. Si dovrebbe riscoprirl­o.

L’ultimo cantore dell’Urbe è stato Giovanni Paolo II che parlava di Roma-Amor

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