«Ragazzi, il futuro comincia a trent’anni»
Phil Knight, fondatore di Nike, racconta i segreti del suo successo. Tra corse, salti e qualche scivolone
Come Steve Jobs, Phil Knight ha cominciato in un garage. Il fondatore della Apple assemblava computer, quello della Nike accumulava nei ripostigli della casa di famiglia le scatole di scarpe da corsa importate in esclusiva dal Giappone e vendute dalla sua prima società, la Blue Ribbon, prima di creare la sua linea di calzature. Quelle con le suole da “runner” plasmate da Bill Bowerman, geniale allenatore della squadra di atletica di Phil in Oregon, usando le piastre incandescenti di ghisa con le quali la moglie preparava i “waffle” a colazione. Ora che, più di mezzo secolo dopo, sta per concludere la sua avventura imprenditoriale nell’azienda leader mondiale dello sport, Phil Knight manda ai giovani un messaggio che ricorda l’invito - « stay hungry, stay foolish » rivolto 11 anni fa dal fondatore della Apple agli studenti di Stanford. E, in un certo senso, va oltre: « Ho costruito la mia vita attorno a un’idea pazza, un sogno improbabile. Il successo è arrivato grazie alla determinazione, a un team che si è rivelato straordinario anche se lontano dai modelli insegnati nelle “business school” e, soprattutto, grazie all’amore di noi tutti
per lo sport. Ai ragazzi di oggi dico: lo so che trovare lavoro è diventato difficile, ma non vi accontentate di un impiego e nemmeno di una carriera. Cercate una vocazione » . Facile a dirsi. Oggi gli studenti sono disorientati. Non solo per l’alta disoccupazione giovanile, ma anche perché il mercato del lavoro cambia di continuo: pochi sanno quello che vogliono veramente fare. « È vero. Rispetto ai miei tempi i ragazzi sono meglio preparati, più competenti. Le università sono migliori anche perché li spingono a completare la preparazione con esperienze aziendali e all’estero. Ma questi giovani sono anche più pessimisti. E rischiano atteggiamenti rinunciatari. Non mi preoccupo se uno studente a vent’anni non sa ancora cosa vuol fare della sua vita: il suo primo lavoro non sarà l’ultimo della sua carriera, è solo l’inizio di una ricerca. Ma devi cercare, esplorare il mondo e te stesso, indirizzare la tua passione: a trent’anni la tua strada deve essere segnata » . Sono nell’ufficio della Nike a Washington: un’anonima “brownstone”, una casa di mattoni senza insegne che si distingue dalle altre solo per la porta di legno arancione, il colore-simbolo dell’azienda dell’Oregon. Phil, uomo schivo ma cordiale, mi accoglie con una tazza di caffè. Ai piedi, come tutti in ufficio, ha delle Nike. Le usa sempre? « Sempre » . Anche quando va a un ricevimento in “smoking”? « Non capita spesso, ma ne ha un paio nere molto adatte per simili occasioni » . Nike ed Apple: aziende diversissime, il gigante del mondo dell’economia digitale, immateriale, e quello che produce, oltre ad abbigliamento e attrezzature sportive, la cosa più fisica che si può immaginare: scarpe che mordono l’asfalto. Eppure la visione sembra la stessa, come anche la capacità di trasformare un marchio in icona planetaria: la mela o lo “swoosh”. Leggo nel suo libro che, ai tempi della quotazione, lei si impuntò con la banca che guidava il collocamento: pretese un prezzo per azione, 22 dollari, non inferiore a quello della Apple che andava sul mercato nello stesso momento. Sentiva una rivalità? « No, per la Apple ho sempre avuto un enorme rispetto e il suo amministratore delegato, Tim Cook, oggi siede nel consiglio d’amministrazione della Nike. Ma è vero che siamo aziende diventate molto più di un semplice produttore agli occhi dei nostri clienti. Lei si riferisce a un episodio del 1980 quando ci quotammo. La banca di Manhattan che curava il collocamento voleva tenere il pezzo basso: più facile piazzare i titoli a 20 dollari. Io ero convinto di valerne almeno 22, come la Apple, e tenni duro. Per orgoglio e per far capire ai finanzieri di Wall Street che, anche se arrivavamo dall’Oregon, non eravamo gente da prendere sottogamba » . Orgoglio da pionieri: il mito della frontiera è ancora vivo in Oregon. Quanto ha contato nel successo della Nike? « Da noi si dice che i pavidi il viaggio verso l’Oregon non l’hanno nemmeno iniziato, i deboli sono morti per strada. Solo i migliori sono arrivati fino in fondo all’Oregon Trail. Non so se sarebbe potuto succedere altrove, ma è qui che si è formata questa squadra incredibile di gente brillante e affiatata: adatta a costruire una nuova impresa sportiva e inadatta per tutto il testo » . Sul tavolo c’è Shoe Dog, il libro che Knight ha scritto con grande passione (pubblicato in Italia da Mondadori col titolo L’arte della vittoria): la sua adolescenza, il viaggio attorno al mondo dopo la laurea, il racconto della nascita e del successo di quest’azienda nata dal nulla che oggi fattura 30 miliardi di dollari l’anno.
Qual è stato l’ingrediente essenziale del successo? « Credere nello sport, nel suo potere trasformativo, la sua capacità di cambiare la cultura. Prima di entrare in questo business, avevo venduto enciclopedie, con risultati pessimi. Me l’ero cavata meglio vendendo fondi comuni d’investimento, ma era anche quella una cosa che mi lasciava il vuoto dentro. Con le scarpe, invece, facevo faville. Mi ci volle un po’ per capire perché: la convinzione. Io non vendevo scarpe, ma la mia irresistibile convinzione che correre fa bene, che l’America sarebbe un posto migliore se tutti facessero qualche miglio ogni giorno. E che usare le eccellenti scarpe che avevo trovato in Giappone, le “Tiger”, fosse l’esperienza migliore » .
Nel libro racconta successi, errori, i tanti incontri. Alcuni straordinari come quello col generale Giap. Perché chiese di vederlo?
« Mi affascinava questo piccolo uomo che aveva sconfitto tutti: americani, cinesi, francesi. Lo dissi ai miei interlocutori in Vietnam e il giorno dopo me lo fecero incontrare. Mi spiegò le sue vittorie con due parole: ero il professore della giungla » . Nel libro, dicevo, si sofferma molto sui suoi errori, si dipinge come un uomo timido e piena d’incertezze. Qualcuno ha parlato di un libro- confessionale: lei andò in Grecia, ammirò il Partenone, si appassionò alle divinità elleniche. Ma poi l’idea di dare all’azienda il nome della dea della vittoria, Nike, non venne a lei ma a Jeff Johnson, il suo primo dipendente. E lei reagì con freddezza: “Niente di meglio?”. Stessa reazione quando un’artista, Carolyn Davidson, disegnò lo “swoosh”, il celebre logo divenuto la rappresentazione grafica della velocità. Chiese qualcosa di più efficace. E la Davidson fu ricompensata con 35 dollari. Lei si autodenuncia pure per gli errori fatti con gli atleti divenuti “testimonial” della Nike. Di Magic Johnson disse che non avrebbe mai giocato nella NBA. Perché queste ammissioni a raffica? « Perché volevo scrivere un libro onesto, credibile. E perché la timidezza può diventare un elemento di forza, come anche l’incertezza che ti induce a interrogarti e a soppesare di più. Chi è molto sicuro di sé riflette meno e può sbagliare di più. Quanto a Magic Johnson, bè aveva caratteristiche a quel tempo non comuni nella Nba, ma sbagliai non c’è dubbio. Da allora mi sono affidato solo a professionisti per gli atleti da scegliere come “testimonial”. Quanto allo “swoosh”, è vero, non ero soddisfatto: per mia natura, quando mi propongono una soluzione chiedo sempre se si può fare di più. Col successo della Nike, comunque, Carolyn è stata ricopensata per il suo logo con un pacchetto di azioni che oggi vale diversi milioni di dollari » .
Michael Jordan con le sue scarpe, le ricercatissime Air
Jordan. E poi Tiger Woods, tennisti come Andre Agassi, cestisti come “Magic” Johnson e LeBron James. Quanto soo stati importanti per il successo della Nike questi suoi “ambasciatori” nel mondo? E lei che rapporto ha avuto con loro? Ha difeso Woods anche nei momenti più difficili, è stato vicino ai suoi campioni nel dolore, ai funerali. LeBron James le ha regalato un Rolex dell’anno del suo esordio con su incisa una frase: « Grazie per essere stato il primo a credere in me » . « LeBron è stato modesto: la stoffa del campione la videro tutti subito. Ma è vero che con gli atleti ho sempre avuto un legame che andava oltre il rapporto professionale con la Nike. Per molti di loro sono diventato uno di famiglia. C’entra col prodotto: scarpe che li hanno aiutati a migliorare le loro prestazioni. Ma c’entra anche la mia natura. Io avrei voluto essere un atleta. Volevo lasciare un segno nel mondo, vincere. Amavo correre, ma purtroppo la natura mi ha dato i mezzi per essere un “runner” buono, ma non eccezionale. Abbastanza per qualificarmi nel team universitario, partecipare alle competizioni, ma nulla di più » .
Ha corso sempre nella sua vita?
« Sempre, anche se oggi, a 78 anni, la mia corsa somiglia più al “jogging”. Chieda a qualunque podista: ami la corsa, non puoi farne a meno. Ogni volta ti dici che lo stai facendo con uno scopo, che insegui un obiettivo esaltante, ma in realtà corri perché l’alternativa, fermarti, ti spaventa. Quella passione, però, ha dato forma a tutta la mia attività successiva. Non potevo vincere da atleta? Avrei vinto da imprenditore. E sulla pista è nato il legame con l’uomo- chiave della mia avventura: Bill Bowerman, il mio “coach”. Ha allenato i migliori podisti d’America ma, soprattutto, amava sperimentare materiali nuovi per rendere più veloce la corsa dei suoi atleti. Provò di tutto per rendere più leggere le nostre calzature: pelle di canguro, persino quella di merluzzo. Modificava in continuazione le nostre suole usando gli attrezzi di cucina della moglie che si disperava. Usava quattro o cinque di noi come cavie per i suoi esperimenti. Io ero il suo prediletto proprio perché non ero tra i migliori: non osava sperimentare sui campioni perché a volte i suoi prototipi ti facevano venire calli e vesciche o, comunque, non davano i risultati attesi. Quando cominciai a importare le bellissime scarpe che avevo trovato in Giappone e gliene mandai un paio, lui mi chiamò subito e chiese di entrare in società con me. E’ stato il cofondatore della Nike e l’ha alimentata col suo genio, fino alla sua scomparsa » . Atleta o imprenditore. Mai pensato di fare il giornalista, visto che suo padre era il proprietario dell’ Oregon Journal? « Certo: per tre estati, da ragazzo, ho lavorato nel giornale. Dipartimento sportivo, ovviamente. Ma ho visto gente che scriveva molto meglio di me e guadagnava molto poco. Meglio cambiare strada, mi sono detto » . Rispetto all’obiettivo di cambiare il mondo, però, non tutto è andato come avrebbe voluto: il “free trade” del quale lei è un paladino, oggi è molto impopolare. E l’America che lei vorrebbe in forma, è sprofondata in un’epidemia di obesità e diabete senza precedenti. « Aumentano le diseguaglianze e non solo tra ricchi e poveri. Oggi ci sono due Americhe anche per la forma fisica: quella “fit” lo è sempre di più. E’ più consapevole, fa esercizio, è attenta all’alimentazione. Quella “unfit” non cura il corpo, si lascia trascinare in una vita sedentaria da Internet e dai videogiochi. Quanto al libero scambio, è vero: sono preoccupato. Tutti i candidati alla Casa Bianca arrivati in fondo alla corsa delle primarie sono contrari ai trattati commerciali e c’è chi demonizza il Nafta: il trattato di libero scambio degli Usa con Messico e Canada. Bè da allora, in vent’anni, il reddito nazionale americano è triplicato. Non sarebbe avvenuto senza “free trade”. Quando Barack Obama ha voluto rilanciare il Tpp, la partnership commerciale coi Paesi dell’Asia e del Pacifico, è venuto a farlo in Oregon, alla Nike. Ne sono orgoglioso » .