La morte secondo Mattia
/ Con questo San Gerolamo di traumatica potenza, Preti interpreta la verità esistenziale dell’uomo più di ogni altro pittore
Èapparso a Parigi, per un istante, un San Gerolamo ( olio su tela, cm 127x102,5) di Mattia Preti, fin qui inedito, di insolita e traumatica potenza, non sfuggito all’occhio vigile di Nicola Spinosa. L’invenzione, benché semplice, è assai singolare, perché mai il pur abusato soggetto ( ne è comparso recentemente in Spagna un altro, di cui abbiamo dato notizia in questa istantanea rubrica) è stato affrontato con tanta disarmata brutalità, rispecchiando, anche oltre la meditata compostezza di Caravaggio nelle versioni del soggetto nella Galleria Borghese, al Monastero di Montserrat e nella Concattedrale di La Valletta, la condizione di disperata penitenza del Santo. Mattia Preti passa dal San Gerolamo in lettura, con l’ausilio perfino degli occhiali in una assorta concentrazione, nel deserto di cui il fondale grezzo, desunto dal fondo ammirato del Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio a Siracusa, è sintesi semplice ed efficacissima, alla folgorazione di una luce che non si vede, e che lo abbaglia e lo prostra, nella tarda e terribile versione del periodo maltese che qui si esamina. Volto e corpo sono prosciugati dal prolungato e penitenziale soggiorno nel deserto: San Gerolamo alza la testa e si volge al richiamo di una tromba del giudizio, altrove ( per esempio nei modelli ineludibili di Jusepe de Ribera) suonata da un angelo che qui non appare, per non offrire al penitente neppure il conforto della sua apparizione. La tromba è il richiamo di Dio che, manzonianamente, atterra e suscita, affanna e consola. (olio su tela, cm 127x102,5). Dall’alto, contrastata, scende una luce che mostra i segni del corpo sofferente, più profondamente persino che nella tesa interpretazione del Santo di Ribera. Rare volte un pittore ha interpretato così autenticamente e profondamente l’ascesi, senza concessioni alla beatitudine, ma nel tormento tra ombra e luce illustrato da Juan de la Cruz. E anche qui la croce, con il Cristo, è dominante, sola compagna alla autoflagellazione che si infligge Gerolamo con il sasso che tiene nella mano destra, mentre la sinistra tiene stretto il teschio quale memento mori. L’abito rosso già cardinalizio è uno straccio liso. Il fondo appare bruciato, arido, come una combustione di Burri. Mai la coscienza della fine fu così estrema come in questa invenzione celata da secoli in una casa del sud della Francia, a Aix- en Provence, nella collezione della famiglia di Jean Baptiste de Felix, sottogovernatore di Dauphin nel 1757, sotto Luigi XV. Il figlio Louis Nicolas fu maresciallo di Francia e ministro della guerra con Luigi XVI. La famiglia possedeva anche il castello d’Olliers, dove l’opera di Mattia Preti è documentata almeno dalla fine del XVIII secolo. Una singolare coincidenza con la caricaturale Giuditta e Oloferne, apparsa qualche mese fa a Tolosa, da taluni attribuita a Caravaggio. Ma nonostante il nome altisonante, la intensità di questo San Gerolamo di Mattia Preti va verso la verità esistenziale dell’uomo oltre ogni altro pittore, aprendo la strada alle più conturbanti visioni del nostro tempo, da Giacometti a Bacon, a Lucien Freud, a Willy Varlin. Il dipinto, si è detto, appartiene al periodo maltese di Preti: lontano è il cromatismo luminoso neoveneziano, con colori brillanti come il blu, l’arancio, il giallo, come offuscati dal ritorno al tenebrismo esperito anche a Venezia. Si confronti il Cristo alla colonna ( La Valetta, National Museum of Fine Arts). Di questo tempo è il San Gerolamo nella sala capitolare della Collegiata Parish Church of the Virgin Mary a Senglea. Si tratta di una composizione molto vicina a questa francese, databile alla fine del settimo decennio del Seicento. Il successo di questa invenzione drammatica, vera e propria meditazione sulla morte, è documentato da altre numerose versioni simili, di qualità inferiore, ricordate da John T. Spike nella sua monografia sul pittore del 1999.