Schwazer e la marcia contro i (pre)giudizi
/ Le nuove accuse di doping rivolte contro l’atleta non inficiano il principio che chi ha sbagliato deve avere sempre la possibilità di ricominciare
Quasi quasi – e sperando che l’interessato perdoni la cinica provocazione – è un vero peccato che in questi giorni non emerga subito con certezza che il marciatore altoatesino Alex Schwazer si sia davvero nuovamente dopato, per di più proprio dopo che a garanzia della sua nuova vita di allenamenti in vista delle Olimpiadi aveva chiamato un paladino della lotta al doping nello sport come il professor Sandro Donati: almeno, in questo caso, proprio il non- lieto fine della non- favola di Schwazer consentirebbe infatti di mostrare ancor più nitidamente ( come in una controprova di laboratorio) quanto comunque distorto, e sviato dal dilagare del populismo penale pure ormai nel resto della società, fosse stato l’ostracismo “di pancia” da molti espresso l’ 8 maggio quando a Roma l’atleta era tornato all’agonismo dopo aver finito di scontare tutta la squalifica di quasi 4 anni inflittagli per doping dopo la prima ( e ammessa positività) all’” Epo” ai Giochi di Londra 2012. « È un vero peccato » ( che non ci sia già la prova certa del nuovo doping) vien da dirlo esattamente con le stesse paradossali parole usate qui il 20 maggio per osservare allora come fosse stato « un vero peccato che il campione olimpico di Pechino 2008, a 31 anni appena tornato in Nazionale » dopo la lunga squalifica, avesse « immediatamente vinto a Roma la 50 chilometri di Coppa del Mondo e conquistato il biglietto per le prossime Olimpiadi di Rio de Janeiro » . L’ideale, si sosteneva infatti, sarebbe invece stato che, al suo ritorno alle gare a livello internazionale, Schwazer fosse arrivato ultimo oppure con un piazzamento modesto: in quanto soltanto così non solo non gli si sarebbe subito ricreato intorno tutto l’opportunistico “circo” di amici della buon’ora, ma soprattutto non si sarebbe sprecata l’occasione di cogliere, nell’indignata levata di scudi contro lo “scandaloso” rientro del “dopato”, la versione sportiva del più notorio « mettetelo in cella e buttate la chiave » , la copia sgualcita della pretesa a furor di popolo di una “galera” a tempo indeterminato ( in questo caso l’” ergastolo” sportivo dell’essere bandito per sempre da ogni gara). L’aver confessato di aver giocato sporco nel 2012, per asseritamente reggere il passo dei superdopati atleti russi che all’epoca andavano per la maggiore e che solo col senno di poi sono stati scoperti, non era certo medaglia che nel 2016 potesse legittimare il rientrante marciatore a ergersi a modello d’esempio, ma questa ovvietà nemmeno doveva risolversi nel sentirsi rinfacciare in eterno il proprio sbaglio, una volta pagatolo con 45 mesi di squalifica. Ecco perché adesso – tralasciando del tutto l’idea di un complotto fatta balenare dall’atleta nella conferenza stampa di 9 giorni fa, e le sue controargomentazioni incentrate sulle altre decine di controlli antidoping ( sia ufficiali, sia volontari, sia a sorpresa) superati senza problemi in questa prima metà d’anno – in queste righe verrebbe quasi da augurarsi che sia vero che il 13 maggio ( proprio cinque giorni dopo il successo di Schwazer a Roma) un profetico e più approfondito e costoso riesame a Colonia da parte della federazione internazionale Iaaf del medesimo campione prelevato e analizzato l’ 1 gennaio abbia rintracciato quasi impercettibili tracce di steroidi sintetici nella provetta che invece nulla di irregolare aveva rivelato al primo controllo sempre a Colonia del test fatto il giorno di Capodanno a Vipiteno.
CADERE E RIALZARSI. Verrebbe cioè quasi da augurarselo perché, allo stesso modo di come il rientro nella società di chi ha espiato la propria pena non cessa di essere un valore ( oltre che una utilità collettiva) per il solo fatto che lo “zero virgola” per cento dei detenuti in permesso premio ricommetta un reato, così l’eventuale ricaduta nel doping del marciatore olimpionico non sposterebbe di un centimetro il controsenso di una concezione della giustizia che negasse in radice al condannato a fine pena ( così come all’atleta “dopato” che abbia scontato la propria squalifica sportiva) anche solo l’idea di poter rinascere dalle proprie ceneri; e che escludesse a priori la possibilità, per chi ne avesse le capacità e la tempra psicologica, di ripartire dai propri errori e tornare a gareggiare ( se campione sportivo) o a lavorare o studiare ( se persona normale) una volta saldato il proprio conto con la giustizia attraverso la condanna subìta per l’illecito commesso. Una verità da ribadire, quand’anche ( e anzi persino più se) Schwazer l’avesse sprecata.