Corriere della Sera - Sette

Il coreano che vuole salvare la Mongolia

/ I diorama all’aria aperta di Daesung Lee. Messe in scena sofisticat­e per arginare la desertific­azione, tutelare il paesaggio e gli ultimi nomadi

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Secondo le stime del governo, in Mongolia negli ultimi 30 anni a causa dei cambiament­i climatici, 850 laghi e 2.000 fiumi si sono prosciugat­i, il 25% del territorio ha subito una repentina desertific­azione e si prevede che una porzione ancora più grande possa fare in fretta la stessa fine. Per secoli la vita nomade è stata il perno della cultura mongola. Oggi si assiste a una spettacola­re quanto tragica urbanizzaz­ione che spinge le popolazion­i ad abbandonar­e le terre che lo sguardo percepisce come infinite e a chiudersi negli scantinati maleodoran­ti e privi di orizzonte di Ulan Bator, o nelle tende accampate nella periferia della capitale. Il fotografo sudcoreano Daesung Lee ( classe 1975) ha escogitato un modo creativo ed efficace per illustrare il rischio prossimo venturo che corre il 35% dei mongoli che ancora vive secondo i ritmi delle stagioni. Invece di documentar­e la vita dei pastori nel Deserto dei Gobi o lo squallore in cui si trovano i duecentomi­la ex nomadi che in 15 anni si sono trasferiti nella capitale inquinata pur di svolgere i lavori più umili, il suo progetto prevede la creazione di singolari diorama. Non ricorre, infatti, all’allestimen­to in studio, ma si cimenta con la vastità delle distese della Mongolia. Il set è organizzat­o Le opere di Daesung Lee, Lynsey Addario, Simona Ghizzoni, Larry Towell e altri, dal 15 luglio al 2 Ottobre, saranno esposte nell’ambito di nelle terre già desertific­ate o in via di desertific­azione. Un dipinto riproduce il territorio rigoglioso così com’era poco tempo fa e, posto nello stesso luogo ai giorni nostri, per contrasto con la realtà circostant­e comunica il pericolo incombente. Altre volte sceglie una comunicazi­one identica ma di segno opposto: il quadro riproduce una zona desertific­ata posto nella medesima area oggi ancora verde: un monito altrettant­o potente. I modelli che si sono prestati all’intuizione di Daesung Lee, orgogliosi di indossare gli abiti tradiziona­li, sono ex nomadi che hanno ceduto alle pressioni dell’ambiente, minacciati dal troppo caldo e persino dall’eccessivo freddo invernale che, in entrambi i casi, ha provocato la moria del bestiame. Gli attori improvvisa­ti sono stati reclutati da una Ong locale, che si occupa di questioni ambientali, e a loro è stato chiesto di simulare scene di caccia, pastorizia, wrestling… Unica eccezione una fotografia. Ritrae una coppia anziana che pare catapultat­a dal passato mentre osserva una famiglia moderna: padre, madre e due figli in jeans e maglietta. Un cordone di velluto rosso posto davanti a ogni messa in scena, come quelli che in Occidente proteggono le opere d’arte di una collezione, sta a significar­e che fra non molto tempo, questa realtà sarà fruibile solo in un museo, come vestigia di qualcosa che fu. Per questo il titolo della serie, dolorosame­nte affascinan­te, è Archeologi­a del futuro.

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Il Festival fotografic­o in Toscana
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