Giovanni Vigo
Galilei. E intricato. Sulle cui origini gli esperti ancora si dividono
Nel 1632, Galileo Galilei aveva già pubblicato tutte le sue opere più celebri, fra le quali, proprio in quell’anno, il Dialogo dei massimi sistemi, che indusse le autorità ecclesiastiche a intentargli un penoso processo per eresia. Sostenitore della teoria eliocentrica, lo scienziato pisano era ben consapevole della rivoluzione che stava sconvolgendo le antiche credenze, e non era certo impreparato di fronte alle scoperte più sensazionali. Ma una cosa non cessava di stupirlo: la nascita dell’alfabeto. « Sopra tutte le invenzioni stupende » , scrisse, « qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? E con qual facoltà? Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta » . Un vero miracolo che, agli occhi di Galileo, sembrava annullare il tempo e lo spazio. Se non che si trattava di un miracolo a lungo preparato. Senza i pittogrammi e gli ideogrammi, senza i geroglifici e i caratteri cuneiformi, non si sarebbe mai arrivati ai “venti caratteruzzi” che hanno cambiato il mondo. Come sempre accade di fronte a conquiste tanto stupefacenti, gli studiosi si sono confrontati, talvolta anche aspramente, per sostenere ora l’una, ora l’altra teoria sulle loro origini. C’è chi ha propeso per la derivazione egiziana, chi ha visto il suo ascendente nella scrittura cretese ( in particolare nella “lineare B” decifrata dai filologi e linguisti Michael Ventris e John Chadwick nel 1952), e chi, come Theodor Herzl Gaster, ha avanzato l’ipotesi di un “anello mancante” che impedirebbe di seguire tutta la catena degli eventi. Non mancano neppure coloro che, come l’archeologo Cyrus Gordon, ritengono che l’alfabeto « sia stata un’invenzione accidentale tratta da un sistema di annotazione che in origine non aveva nulla a che fare con l’espressione di suoni » .
Rousseau l’aveva detto. Sembra però certo che il primo alfabeto consonantico – così definito perché non prevedeva alcun segno per le vocali che venivano pronunciate dal lettore – sia di origine nordsemitica e fenicia. A Biblo, un antico porto della Fenicia, sono state infatti rinvenute iscrizioni che risalgono al 1375 a. C., che utilizzano un centinaio di segni. Un bel numero rispetto ai “venti caratteruzzi” evocati da Galileo, ma pur sempre molto limitato rispetto alle precedenti scritture ideografiche. Altre iscrizioni, rinvenute a Ugarit e risalenti a un’epoca compresa fra il 1500 e il 1200 a. C., sono state interpretate come un incrocio fra i caratteri cuneiformi e quelli alfabetici. Testimonianze successive come l’epitaffio inciso intorno all’anno 1000 a. C. sul sarcofago di Ahiram, il famoso calendario di Gezer, risalente al 1000 a. C. e la stele di Mesha databile intorno all’ 840 prima di Cristo, suggeriscono l’esistenza di un alfabeto formato da 22 consonanti senza alcuna vocale, una caratteristica che gli studiosi attribuiscono alla natura della lingua semitica. Da questo ceppo, concludono, sono derivati l’alfabeto fenicio e quello ebraico antico. La più antica iscrizione ebraica giunta fino a noi