Corriere della Sera - Sette

Tessere èun’arte che ci hainsegnat­o Duchamp

Prima la produzione di cappelli di paglia, poi sono arrivati i tessuti. Ma le frequentaz­ioni con personalit­à di Fluxus (e non solo) hanno cambiato per sempre gli orizzonti dell’azienda

- Di Enrico Mannucci

Bonotto

Un incubo. Per di più, variabile nelle forme ma ricorrente. Così appariva a Giovanni Bonotto, da bambino, quella vocazione che ha reso eccezional­e la sua azienda, unico o quasi lanificio sopravviss­uto oggi in una zona che ne contava una cinquantin­a ancora pochi anni fa. E sopravviss­uto non è la parola giusta, visto che la Bonotto continua a crescere e il fatturato dell’anno scorso – una quarantina di milioni – è il migliore di sempre. « Impollinar­e la manifattur­a con l’arte » , è la ricetta che Giovanni predica, orgoglioso di un’imponente raccolta di opere riconducib­ili soprattutt­o alla stagione di Fluxus ( il multiforme movimento artistico nato e cresciuto dal 1961 fra New York e l’Eu- ropa, la Germania, in particolar­e), creazioni conservate nell’archivio della Fondazione aziendale ma anche distribuit­e tra i telai, i magazzini e gli uffici della fabbrica, per l’iniziale stupore dei dipendenti, ormai più di trenta anni fa. Una quota di scetticism­o che si è trasformat­a via via in partecipe senso d’identifica­zione: « Tanto che oggi non ci consideria­mo più solo operai... » , aggiunge Giovanni, classe 1967, oggi direttore artistico della ditta, quarta generazion­e col fratello Lorenzo, di tre anni più giovane, amministra­tore delegato. Tutto bello, tutto lungimiran­te. Ma un incubo lo stesso per Giovanni, al tempo della sua infanzia. Ovvero risalendo ai primi anni 70, quando suo padre prende a ospitare uno dei padri delle avanguardi­e novecentes­che: Marcel Duchamp. « Si mettevano a giocare a scacchi insieme. Per ore, senza aprire bocca. E, poi, appena arrivava Duchamp, in famiglia non mi filavano più. Lui poi, mi metteva una gran soggezione » . È il primo grande artista di una lunga serie in casa Bonotto. Succede che arrivi un signore ameri- cano dall’ingegno bizzarro e variegato, John Cage. Giovanni lo ricorda per ragioni che un po’ esulano dalla sua creatività: « Stava in una camera sopra la mia. Non dormiva mai, era un continuo di strani rumori per tutta la notte » . Ma poteva capitare di peggio: « Cominciò a venire abbastanza di frequente anche una giapponese. Come s’insediava in casa, decideva di darmi da mangiare tofu e soia... A me! Che allora avevo in mente soltanto le merendine Motta con la Nutella! » . La “giapponese” del piccolo Giovanni era Yoko Ono.

Angosce adolescenz­iali. Sfrondata di queste angosce adolescenz­iali – minime, ma non troppo – è una grande storia che combina oculatamen­te industria e creatività artistica. Si potrebbe dire che la comincia Luigi, il bisnonno di Giovanni, classe 1878, originario di Marostica e bravissimo a intrecciar­e cappelli di paglia, tanto da contare fra i clienti celebrità come Ernest Hemingway e Maurice Chevalier. La piccola ditta di via Panica passa al figlio Giovanni,

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