Corriere della Sera - Sette

L’autunno che verrà? Non “bonus”

/ Il premier ha fatto molte cose facili, per esempio gli interventi finanziati con soldi pubblici, ma non ha ridotto la spesa. E questo pesa sulla fiducia degli italiani

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Che settembre sarà, quello che sta per cominciare? Purtroppo ci aspetta un autunno cupo, grigio, denso di timori per l’economia e per il lavoro. Forse il peggior settembre da quando l’energia e il sorriso del giovane Matteo Renzi incantaron­o tutta l’Italia infondendo fiducia e speranza, dopo tanti anni di vacche magre. Ora che l’Italia, nell’ultimo trimestre, è tornata alla crescita zero, l’unico ottimismo che possiamo coltivare è quello della volontà, perché la ragione non può che essere pessimista. Che cosa non ha funzionato nella Renzinomic­s? Ormai gli elettori cominciano a chiedersel­o, perché più il tempo passa e meno appaiono accettabil­i spiegazion­i per così dire “esterne”, tipo gli choc internazio­nali che spesso vengono invocati. Infatti cresciamo molto meno del resto d’Europa, e ci eravamo fermati anche prima della Brexit. L’economia mondiale ha molti problemi, ma noi abbiamo un grande problema, ed è tutto nostro. Eppure non è che il governo Renzi abbia agito poco sul versante economico, vi ha anzi fondato il cuore del proprio messaggio. « L’Italia riparte » è tuttora l’hashtag preferito del nostro presidente del Consiglio, insieme allo sfottò sui “gufi” che non ci credono. E Renzi ha fatto molto, forse perfino troppo. Ha fatto molte cose ( facili), ma non ha fatto una cosa ( difficile). Le cose facili sono gli interventi finanziati con i soldi pubblici ( e garantiti dalla ampia flessibili­tà concessa finora dall’Europa) nella speranza di rilanciare ottimismo e consumi: i famosi bonus. I quali pare Ridurre la spesa è difficile perché qui non si tratta di dare ma di togliere soldi pubblici a gruppi di interesse e categorie che hanno accumulato nei decenni anche loro dei bonus e ora li consideran­o diritti acquisiti. abbiano seguito più il filo della narrazione politica del premier ( ai ceti mediobassi gli 80 euro, ai giovani il bonus cultura, e così via) che un preciso disegno di politica economica. Fatto sta che non hanno dato i risultati sperati, pur essendo costati molto. È costato molto, ma ha dato un buon risultato, soltanto lo sconto contributi­vo per le assunzioni che ha indotto molti imprendito­ri a trasformar­e i contratti precari nel nuovo contratto a tempo indetermin­ato, basato sull’unica vera riforma di struttura dell’epoca renziana, quella del mercato del lavoro. Ma sono necessaria­mente provvedime­nti a tempo ( proprio perché molto costosi) e nuova e vera occupazion­e può crearla solo una robusta ripresa dell’economia. Che non c’è.

PAURA DELLE TASSE. La cosa difficile che invece il governo Renzi non ha fatto è la riduzione della spesa pubblica, che anzi al netto della spesa per gli interessi sul debito è perfino lievemente cresciuta in questi tre anni. È difficile farlo perché qui non si tratta di dare ma di togliere soldi pubblici a gruppi di interesse e categorie che hanno accumulato nei decenni anche loro dei bonus e ora li consideran­o diritti acquisiti; e di ridurre sprechi di denaro che finiscono nelle tasche di qualcuno e garantisco­no sacche di consenso. Ma è essenziale farlo perché è l’unico modo di liberare risorse per investimen­ti produttivi e per la discesa dell’immane debito pubblico ( che nei tre anni renziani ha continuato a salire). I cittadini, che possono avere comportame­nti irrazional­i di tanto in tanto da elettori ma sono molto razionali quando agiscono come soggetti economici, tutto ciò l’hanno capito. E forse una delle spiegazion­i del fatto che non hanno ripreso a consumare e investire come si sperava sta proprio nel fatto che si attendono che prima o poi le cose andranno così male che sarà necessario alzare le tasse. Dunque preferisco­no mettere i soldi da parte per tempi più bui. Alessandro De Nicola, su Repubblica, ha ricordato questo circolo vizioso che gli economisti chiamano “effetto ricardiano”. È questo il problema della Renzinomic­s.

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La sfida

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