Prigionieri dei mediocri
Un paio di mesi fa, in questa colonna, ponevo una domanda: e se ci accorgessimo che il Regno Unito, già prima della Brexit, negoziava trattati commerciali con Usa, Canada e altre sue ex colonie per assicurarsi un futuro economico svincolato dalla Ue? Non me l’ero sognato, davo fiato a rumors di ambienti finanziari londinesi, e lanciavo una provocazione: sono loro che vanno alla deriva nelle gelide acque del Nord o noi che ci stiamo incagliando sulle coste del Nordafrica? Ora si è aggiunta la notizia che i patti di libero scambio tra Bruxelles e i due colossi nordamericani sono, se non definitivamente, prossimi a un binario morto. Con il Canada abbiamo ottenuto ciò che chiedevamo, quindi la frenata non è giustificabile. Con gli Stati Uniti invece sì: il trattato, così com’è, è palesemente sbilanciato a loro favore. Ma i negoziati sono, per definizione, duri e impervi; si giunge a una sintesi solo se vi sono la volontà politica e un interesse comune di fondo. L’ondata populista che attraversa l’Occidente, alimentata dalle diseguaglianze in forte aumento, sta facendo passare il protezionismo e l’arroccamento nelle proprie “piccole” comunità come le soluzioni a questi mali. Lo sostiene Trump, con la grevità del suo linguaggio: costruiamo un muro con il Messico e glielo facciamo pagare a loro, la Nato se la paghino gli europei, e così via, con una profondità di visione da bar sport. Però fa breccia, tanto da convincere la Clinton a un programma più isolazionista di quanto sia nelle sue corde. In Europa, il fronte simil- Trump è in forte ascesa, per palese colpa di una classe politica mediocre senza idee, coraggio, progetti: promette e minaccia, senza prospettive, se non le proprie personali. La colpa più grande, però, è di aver talmente abbassato il livello da lasciar spazio solo a chi è peggiore di loro, auspicandone il fallimento, così da tornare al potere come Cincinnato dopo l’esilio agricolo. Il caso romano ne è un esempio. Eppure, l’opinione pubblica ci casca ed è pronta ad applaudire un qualunque Fonzie si metta il giubbotto di pelle e vada in motocicletta ad arringare le folle con frusti slogan. Stufi di accusare globalizzazioni e populismi, ci siamo ormai convinti che una rivoluzione è necessaria, ma che sia morale e basata su un progetto di rinascita democratica. L’assedio che siamo sperimentando in termini economici ( disoccupazione, impoverimento) e umani ( immigrazione, attentato ai nostri valori) si rompe solo attaccando. Rinchiudendoci, siamo già sconfitti. Partiamo allora dalle poche certezze rimaste: con Stati Uniti e Canada parliamo la stessa lingua ( storica e culturale); Cina e Russia restano due semidittature. Ci servono il coraggio e le idee di un Franklin Delano Roosevelt, non la nostalgia di Mao o Stalin.