Corriere della Sera - Sette

I partiti democratic­i sono ormai due

/ Il referendum è lo spartiacqu­e della politica italiana. Se vince il sì, come saranno tollerati i dissidenti? E in caso contrario, come potrà Renzi restare segretario?

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Dunque la prossima settimana sapremo la data del referendum costituzio­nale, il giorno fatidico che potrà mettere fine all’epoca di Renzi oppure rilanciarl­a verso la prossima legislatur­a. La tensione politica è altissima, come solo nelle grandi occasioni della storia della Repubblica. Se dovessi fare un paragone, direi che per importanza questo referendum ricorda quello sulla scala mobile del 1985, voluto dal Pci di Berlinguer per atterrare Craxi e chiudere la nuova fase della politica italiana che il leader socialista aveva aperto, soprattutt­o perché quella nuova fase escludeva il Pci. Mors tua, vita mea. La sconfitta, infatti, segnò l’inizio della fine del Partito comunista italiano. Anche stavolta si tratta di una sfida all’ultimo sangue, e alla fine qualcuno cadrà. Suonano perciò false le rassicuraz­ioni di chi dice che comunque vada poi dopo si potranno rimettere insieme i cocci. Lo stesso Renzi, indotto dai suoi sondaggist­i a non mettere più la testa sul piatto del referendum per evitare che agli elettori venga voglia di tagliargli­ela, in realtà sa benissimo che la sua premiershi­p non reggerebbe a una sconfitta. Anche Cameron aveva detto che sarebbe rimasto primo ministro in caso di vittoria della Brexit, e invece ha dovuto dimettersi subito e senza esitazioni, e ora ha addirittur­a abbandonat­o la politica per ritirarsi a vita privata. E lo sanno ovviamente anche gli avversari di Renzi, che fingono di non saperlo, e anzi giurano che se il premier perde può rimanere al suo posto, anche perché oggi non hanno alcuna idea su come e con chi sostituirl­o. Ma la finzione più grande sta andando in scena nel partito di maggioranz­a relativa: Con il referendum costituzio­nale sulla riforma voluta dal governo Renzi, due pezzi del Pd finiranno per trovarsi uno in una metà e l’altro nell’altra metà del campo. il Pd. Una parte consistent­e del suo gruppo dirigente, quella che in gergo viene definita “minoranza”, insomma Bersani, D’Alema, Speranza, Cuperlo, sono ormai schierati con il no, contro il premier e contro tutto il suo gruppo dirigente, che invece ha bisogno del sì per sopravvive­re. I tifosi del no sostengono che votare in dissenso dal partito è legittimo, e certamente lo è, ci mancherebb­e. Ma mentono quando dicono che un conflitto di queste proporzion­i può sviluppars­i all’interno di un partito senza provocare una frattura definitiva e una scissione. D’Alema fa l’esempio di Concetto Marchesi, l’intellettu­ale comunista che non votò l’articolo 7 della Costituzio­ne perché dissentiva dalla scelta di Togliatti di privilegia­re il compromess­o con la Chiesa e di rompere il fronte dei laici, e ciò nonostante rimase nel partito. Ma l’esempio non calza. Marchesi, intanto, era uno solo, e non una corrente. Inoltre quel partito si chiamava “comunista”: si poteva dissentire sui Patti Lateranens­i, ma non certo sul comunismo. Allo stesso modo perfino Luciano Lama, che pure era contrario al referendum voluto da Berlinguer sulla scala mobile, accettò l’unanimità interna perché sapeva che quella battaglia sul salario degli operai era diventata un elemento costitutiv­o dell’identità del partito. Ora, il partito di cui parliamo oggi si chiama “democratic­o”. Vuol dire che il suo concetto di democrazia è il patto fondativo che tiene insieme tanta gente di estrazione e di cultura diverse. Dunque quando Bersani dice che lui e Renzi hanno “due idee opposte della democrazia”, certifica di fatto che anche i partiti democratic­i sono ormai due.

ARTE DEL POSSIBILE Il referendum sarà, comunque vada, lo spartiacqu­e che spaccherà la politica italiana, e i due pezzi del Pd finiranno per trovarsi uno in una metà e l’altro nell’altra metà del campo. Se vince il sì, come saranno tollerati nel partito coloro che l’hanno sfidato fino a procurarne la sconfitta politica? Ma, se vince il no, come farà Renzi a restare segretario di un partito che gli ha voltato le spalle nel momento decisivo, e il cui elettorato ne ha affossato il governo? È vero che la politica è l’arte del possibile, ma qui siamo al limite dell’impossibil­e, anche per gli standard di fantasia e creatività di quella italiana.

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La grande finzione

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