Virtù e vergogna nel proto-picaresco
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Nel 1554, in quattro diverse città spagnole, viene pubblicato un breve e fortunato racconto intitolato Vita, avventure e disgrazie di Lazarillo de Tormes. Rigorosamente anonimo, questo testo è considerato come il primo modello della letteratura picaresca spagnola. Al centro del racconto autobiografico – lo stesso Lázaro narra la sua vita in una lettera indirizzata a un gentiluomo, evocato come « Signoria Vostra » – campeggiano il tema della fame e i mille stratagemmi che il giovane protagonista, condannato dalla sua povertà, deve mettere in atto per nutrirsi: « Pensavo ora notte e giorno al modo che avrei dovuto tenere per sostentarmi la vita. Mi faceva luce la fame, mostrandomi questi dannati espedienti, poiché dicono che da essa sia aguzzato l’ingegno e, viceversa
« “Io, oro e argento non te ne posso dare; ma di espedienti per vivere te ne farò vedere molti”. E così fu, che costui mi diede la vita dopo Dio, e, cieco com’era, m’illuminò e addestrò nella carriera del vivere. Mi piace raccontare alla Signoria Vostra queste vicende puerili, per mostrare quanta virtù sia che sappiano gli uomini innalzarsi essendo in basso; e qual vergogna che di alti s’abbassino »
dalla sazietà intorpidito » ( II). Nato in « un sobborgo di Salamanca » ( Tormes è il nome del fiume in cui è stato partorito) da un padre al servizio di un mugnaio ( « incolparono mio padre di avere operato dei mal riusciti salassi nei sacchi che portavano lì per la macinatura, per la qual cosa fu imprigionato » I) e da una madre che, dopo l’arresto del marito, convive col moro Zaide ( « Ai primi tempi […] non lo potevo soffrire e mi faceva paura così per il suo colore come per la sua grinta; ma quando m’accorsi che con la sua venuta il vitto era migliore, cominciai ad averlo caro » I), il giovanissimo Lázaro, subito dopo l’allontanamento del patrigno per furto, inizia le sue avventure al servizio di diversi padroni: un astuto cieco, a cui faceva da guida ( « non vidi mai un uomo tirchio e meschino quanto lui, al punto che mi faceva morire di fame » I); un avarissimo prete ( « tutta la spilorceria universale era rinserrata nel corpo di costui » II); uno scudiero che in nome del suo onore faceva la fame ( « il loro male è di quelli che si muore » III); un frate mer- cedario « nemico a morte » del « mangiare » ( IV); un falsario “spacciatore” di bolle pontificie ( V); un « pittore di tamburelli » e un cappellano che gli fece « vender acqua per la città » ( VI); un ufficiale di giustizia e, in ultimo, approda a « un impiego pubblico » ( « la sola risorsa per chi voglia vedere prosperare il proprio stato » VII). Un lungo apprendistato che inizia paradossalmente con le lezioni di un cieco da cui impara ad aprire gli occhi e che si conclude con la ricompensa finale di essere assunto come banditore pubblico. Nelle pagine conclusive, Lázaro ( per non turbare il suo nuovo equilibrio) respinge le accuse delle « male lingue » che parlano della tresca tra sua moglie e l’arciprete di San Salvatore ( « vedono che mia moglie va a rifargli il letto e a preparargli da mangiare » ) : « Io ho risoluto di star dalla parte dei buoni » e di pensare, come gli suggerisce lo stesso prelato, solo al suo « vantaggio » ( VII). Tra furto e onestà, riso e pianto, realtà e finzione, Lázaro critica l’ipocrisia della Chiesa e del falso “onore”, testimoniando che anche la vita di un miserabile merita di essere raccontata. La virtù innalza chi sta « in basso » ( un picaro diventa un grande scrittore). E chi precipita dall’alto, invece, viene travolto dalla vergogna.