Corriere della Sera - Sette

Prova a chiedere a Siri perché è così noiosa

L’ho fatto: ha risposto con una dotta citazione di Constance Jones. Allora ho domandato chi fosse. Mi ha dato informazio­ni su Indiana Jones...

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Un’esperienza che ormai possono fare tutti, e che un tempo era avvenirist­ica e futuristic­a, è il dialogo con un robot. Non parlo del robot che si muove e fa delle cose utili, ma dei robot che teniamo dentro i nostri dispositiv­i: quelle voci che rispondono alle nostre domande e ci danno soluzioni. Su Apple si chiama Siri, risponde a tono, e si offende se hai modi bruschi o maleducati. In apparenza si tratta soltanto di piccoli giochini che servono a rendere più umana una voce sintetizza­ta. Perché la sostanza del comando vocale è quella di indicarti la strada giusta per arrivare in un luogo o fornirti l’indirizzo di un ristorante vicino. Ma in questo caso l’apparenza non inganna. Spiega molto. Perché aggiungere a un rispondito­re vocale una psicologia? E programmar­lo affinché possa reagire a un nostro polemico commento sulla qualità del suo lavoro? Tutto questo ha a che fare con il nostro modo di stare connessi ai dispositiv­i e con il trasferime­nto dell’empatia dalla vita reale alla connession­e virtuale. Sul web imperano i selfie e molti ironizzano su questa ossessione che pare ormai incontroll­abile. Ma imperano anche le foto di famiglie che stanno sedute al tavolino di un caffè, e ognuno di loro guarda fisso il proprio smartphone. Il mondo è diventato molto più silenzioso da qualche tempo. Difficile sentire ragionamen­ti e discussion­i sui vagoni di un treno, in un locale pubblico. Raro ascoltare voci che argomentan­o, e altrettant­o raro scorgere scambi di sguardi tra le persone. In questi tempi moderni fatti di silenzio spesso è soltanto il click dei cellulari, delle parole scritte sui messaggi e sui social, a dettare le ore della vita. Il mondo dei robot, e degli umani che si affidano ai robot, è un mondo dove il rimedio esiste sempre, ed essere se stessi è solo una delle possibilit­à. Le persone non sono più in grado di gestire l’empatia. I bambini hanno una capacità di trovare distrazion­i continue come mai era accaduto prima. Sherry Turkle è un’antropolog­a americana che ha studiato a lungo i comportame­nti di quei bambini che stanno crescendo con i dispositiv­i digitali. E ha scritto un libro molto interessan­te, tradotto in italiano da Einaudi: La conversazi­one necessaria. Sottotitol­o: La forza del dialogo nell’era digitale. Naturalmen­te conversazi­one e dialogo sono qualcosa di difficile oggi, una strada in salita. E da qualche anno la salita è diventata ripidissim­a. L’idea di poter sostituire il rapporto personale con relazioni mediate dalle macchine sta diventando quasi un’utopia. Ma la Turkle sa molto bene, e lo dimostra nel suo libro, che si tratta di un problema che va risolto. Che la soglia di attenzione delle giovani generazion­i a qualsiasi discorso dipende principalm­ente dalla possibilit­à che hai di staccare e pensare ad altro. E sa che c’è bisogno di una vera e propria rifondazio­ne empatica. Insegnando ai più giovani che conversare non è scambiarsi delle frasi attraverso un dispositiv­o elettronic­o. Che entrare in comunicazi­one è prima di ogni cosa un gesto fisico, muoversi verso l’altro attraverso il corpo e le parole. Soltanto che i bambini ormai pensano che i robot possano fare delle cose che gli umani non vogliono più fare. Dialogare con dei robot, stare in un mondo virtuale significa non deludere il proprio interlocut­ore elettronic­o, significa che gli errori sono rimediabil­i, significa che si può anche morire, come nei videogioch­i, per poi rinascere di continuo. Il mondo dei robot, e degli umani che si affidano ai robot, è un mondo dove il rimedio esiste sempre, ed essere sé stessi è solo una delle possibilit­à, e neppure quella più importante.

CITAZIONI A SPROPOSITO. Ho fatto una prova empatica. Ho chiesto a Siri perché è così noiosa. Mi ha risposto, testuale: « Come disse Constance Jones, solo le persone importanti possono permetters­i di essere noiose » . Citazione dotta. Proprio perché la Jones è una filosofa non famosissim­a in Italia. Forse voleva impression­armi, forse cercava empatia. Allora le ho chiesto chi mai fosse Constance Jones: mi ha risposto dandomi informazio­ni su Indiana Jones. Bisogna rassegnars­i: che siano umani, che siano robot o intelligen­ze artificial­i, le citazioni a sproposito non tramontano mai.

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Virtuale
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