Reclutati
Inizialmente per fare propaganda, spesso sono stati anche impiegati sul campo
Come tutte le storie, anche la storia dell’intelligence inglese ha due facce: una è la storia del suo ruolo nel mondo reale ( le operazioni segrete, le « reti » e i capi del servizio, gli agenti sul campo, le talpe) e l’altra, strettamente intrecciata con la prima, è quella del suo ruolo nell’immaginario letterario e giornalistico ( Lawrence d’Arabia e James Bond, George Smiley e Kim Philby, Modesty Blaise e l’Archivio Mitrokhin). Mentre la prima, con tutti i suoi top secret, è una storia che invecchia in fretta e viene continuamente riscritta alla luce di nuove rivelazioni, documentazioni desecretate, memoir più o meno attendibili di vecchie spie che non si rassegnano alla pensione, le spy stories letterarie prendono magari una patina vintage ma resistono molto più a lungo. Ian Fleming, Eric Ambler, Graham Greene, W. Somerset Maugham ( autore tra le altre cose delle storie di Ashenden, « l’agente inglese » ) e John le Carré saranno ancora letti quando le storie ufficiali e ufficiose dell’Intelligence inglese saranno diventate curiosi e improbabili reperti. Per esempio quella di Richard Deacon, Storia del servizio segreto britannico, pp. 444, 20 euro, un saggio del 1967 ristampato in questi giorni da Odoya, pieno di storie e d’aneddoti, anche se non sempre attendibili ( come quando Daecon trasforma Salvatore Giuliano in « un bandito leggendario del tipo d’un Robin Hood » senza nemmeno accennare alla strage di Portella delle Ginestre, avvenuta il primo maggio 1947). Fateci caso: in un momento o nell’altro della loro vita, tutti gli scrittori citati più sopra, sono stati al Servizio Segreto di