Il gioco non è affatto un gioco
Piaceri&Saperi / Capacità molto complessa, è importante dal punto di vista psicologico. Soprattutto nella versione “facciamo finta di...”
Nessun problema: è praticamente un gioco! Cioè, è facilissimo. Quante volte abbiamo sentito dire una frase come questa? Detta e prontamente contraddetta: giocare non è per nulla “facile”. Il gioco è fondamentale per lo sviluppo psicosociale e non è affatto una capacità banale e scontata, bensì un’attività molto complessa dal punto di vista neurobiologico. Le strutture e le funzioni coinvolte sono molte e devono attivarsi in modo corretto. Innanzitutto per giocare è necessario che il nucleo accumbens, un piccolo gruppo di cellule nervose situato nelle profondità del cervello, funzioni a dovere. Fra l’altro, quando in questa struttura sono stimolati i recettori della dopamina, una sostanza liberata nel cervello in condizioni di piacere, la propensione al gioco tende ad aumentare. E dal momento che tutte le attività che sono indispensabili alla continuità della specie, come alimentarsi e riprodursi, sono “premiate” da sensazioni di piacere, ( altrimenti non le faremmo) si può arguire che anche il gioco possa far parte delle funzioni fondamentali in chiave evolutiva, forse legata in particolare ( ma non solo) alla capacità di socializzare. Un’ipotesi che può trovare sostegno anche nei risultati di indagini condotte mediante Risonanza magnetica funzionale ( una tecnica di imaging cerebrale) che hanno indicato come l’attività del nucleo accumbens aumenti quando si è coinvolti in attività sociali piacevoli. Fra l’altro mentre si gioca, specie se in compagnia, c’è anche un incremento nella produzione di ossitocina, ormone che aumenta socialità ed empatia. A sottolineare come il gioco sia fondante e complesso ci sono anche ricerche che hanno indagato una forma di gioco molto importante dal punto di vista psicologico, quella di finzione, cioè del “facciamo OBESITÀ di Ottavio Bosello, Massimo Cuzzolaro Il Mulino pp. 219 14 euro
L’finta che…” per il coinvolgimento che esige delle strutture cognitive, e perché rompe i confini esistenti tra immaginazione e realtà. Diversi studi hanno individuato una relazione positiva tra questo tipo di gioco, la creatività, e l’abilità nell’affrontare differenti situazioni. Questo modo di giocare diventa, non a caso, più frequente quando i bambini sono all’aperto, dove ci sono più occasioni per inventare. Il fatto che il gioco non sia affatto un’abilità banale e scontata può trovare riscontro anche nella dolorosa difficoltà a giocare di molti bambini autistici e, soprattutto, nella loro fatica a sviluppare alcune abilità che li avvicinino ai loro coetanei. A questi piccoli gli schemi di gioco vanno insegnati. Possono imparare a giocare, ma bisogna insegnare loro a farlo, non molto diversamente da come si fa con le nozioni scolastiche o con compiti relativamente semplici, come per esempio allacciarci le scarpe. Infine, una prova indiretta della potenza in chiave neuropsicologica del gioco arriva anche dal fatto che far giocare bambini sottoposti a un intervento chirurgico riduce il dolore sperimentato. Lo ha dimostrato uno studio pubblicato sulla rivista Pain Management Nursing da ricercatori spagnoli, nel quale è stato misurato il dolore in due gruppi di bambini operati, uno coinvolto in un programma di gioco, l’altro lasciato alle normali cure. In tre diverse misurazioni il livello di dolore percepito dai bambini entrati nel programma di gioco risultava inferiore a quello dei bambini a cui non era stato “somministrato” gioco come terapia. obesità è una malattia? Più si che no. Così recita la quarta di copertina di Obesità, saggio di Ottavio Bosello e Massimo Cuzzolaro, specialisti, rispettivamente, in Medicina Interna e Psichiatria. Il che dice già molto. Perché l’obesità è una condizione che certo ha bisogno
Anchei bambini autisticipossono imparare a giocare, mabisogna insegnare loro a farlo, comesi fa conlenozioni scolastiche
di essere affrontata con un approccio aperto, capace di mettere a fuoco sia gli aspetti metabolici che quelli psicologici, non solo come possibile concausa, ma anche come conseguenza, sul fronte organico e su quello sociale, considerando il forte stigma sociale che le persone obese si trovano sempre più spesso a dover sostenere. Nelle oltre 200 pagine del volume gli autori trattano l’argomento in tutti i suoi aspetti fondamentali, dalle cause alle possibili cure mediche e chirurgiche fino alle controversie sui programmi di prevenzione.