Chrissie Hynde, teenager ultrasessantenne
Nel nuovo disco canta i sogni che aveva a 19 anni. Perché la sua vita è fatta metà di rimpianti, metà di note
Ho dei rimpianti su metà di quello che leggerete in questo libro; l’altra metà è la musica che avete ascoltato » . Chrissie Hynde aprì con queste parole il prologo alla sua autobiografia uscita l’anno scorso, Reckless, come dichiarazione d’intenti: la vita di Chrissie da Akron, Ohio, piena di errori e rock’n’roll agli antipodi della francesissima “Je ne regrette rien”, una vita di rimpianti senza i quali non ci sarebbe stata la musica. L’odio da teenager per i genitori nixoniani che la volevano lontana dai palcoscenici rock oggi, rivisto con serenità, « è il motivo per cui sono qui adesso, altrimenti avrei sposato un biker e oggi sarei seduta sul divano con la dentiera in un bicchiere sul tavolino » . La colpa delle cose brutte che le sono successe? « Tutta mia » . Un’etica da samurai del rock’n’roll che rende ancora più significativo il titolo del nuovo disco – lei continua a chiamarli così, dischi, immune alla rivoluzione digitale – in uscita dopo otto anni di silenzio dei Pretenders: Alone, sola. Chrissie, 65 anni, è la sola superstite del lineup originale della band ( James Honeyman- Scott e Pete Farndon sono stati uccisi dalla droga), e inizialmente questo doveva essere un altro album da solista: ma dopo aver lavorato con Dan Auerbach dei Black Keys come produttore, la scelta della “reunion” della band, e di un tour americano con Stevie Nicks. Il rapporto con il tempo che passa? « Non me ne frega un c… » , risponde regolarmente Hynde quando la interrogano, troppo impegnata a scrivere canzoni, a suonare, a cantare. Rockstar che ha avuto due figlie da due colleghi – Natalie da Ray Davies dei Kinks e Yasmin da Jim Kerr dei Simple Minds – Hynde affascina per lo stile quanto per il talento: mentre gli Anni 80 esplodevano intorno a lei in un delirio di colori pastello e fluo, con le spallone e i pantaloni flosci con mille pinces, è rimasta fedele alla linea del nero, del kajal intorno agli occhi, dei jeans skinny e dei giubbini di pelle. Americana che ha vissuto per decenni in Inghilterra incarna – meglio di lei, forse, lo fa soltanto Deborah Harry – l’etica molto punk rock che gli americani chiamano degli “zero fucks given”, del disinteresse assoluto per quel che pensano gli altri, per le convenzioni. In questo nuovo disco Hynde canta: « Voglio solo, solo, solo vedere la luce / Voglio voglio voglio ballare tutta notte » , la stessa idea che aveva a diciannove anni quando scappò di casa, la Londra del punk come antidoto all’Ohio delle fabbriche in crisi, dei papà con i capelli a spazzola fuori tempo massimo e delle casalinghe repubblicane. L’assoluta sordità alle rimostranze altrui ( « Non leggo gli articoli di giornali che mi riguardano, mai letti, mai lo farò » ) è stata dimostrata anche immediatamente dopo l’uscita della sua autobiografia, libro molto bello che nelle librerie americane non ha avuto vita facile a causa di una polemica molto violenta. Hynde che scrive – e ripete agli intervistatori – che si assume la responsabilità per le due volte che fu stuprata, da ragazza, « fui imprudente, quelli erano bestie non uomini e io giravo ubriaca in mutande » , l’etica estrema di chi non fa sconti a nessuno tantomeno a se stessa ma finisce per farne ai criminali che abusarono di lei. Lei che, tanti anni dopo, della solidarietà altrui non ha mai saputo che farsene, esattamente come delle diatribe delle femministe: una volta scritto il libro ha scritto un altro disco, l’ha suonato e cantato e inciso con un produttore che potrebbe essere suo figlio, eroe dei ragazzi con i suoi Black Keys che si è dovuto inchinare per una volta alla regina con lo sguardo al kajal e l’indifferenza più assoluta per quel che tutti possono pensare di lei. di