Corriere della Sera - Sette

La separazion­e è diventata l’ottavo sacramento

/ «Mi sembra», scrive una lettrice, «che questa società la consideri non più l’estrema soluzione di un problema grave, ma una sorta di passaggio obbligato, se non addirittur­a un valore»

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(…) Ho praticato, ormai anni fa, la separazion­e: con dolore e con un senso di necessità, perché mi sembrava di essere senza scelta. Del resto tutto induceva a farlo, c’era una sorta di spinta sociale, un rombo di tuono che iniziava con gli amici, passava per l’avvocato («se siete qui avete già deciso») e finiva con lo psicologo dei minori e con la litania «meglio di un ambiente ostile» - peraltro mai così evidente in casa. D’altra parte non si può esser soli a voler stare insieme, non si possono neanche accettare tutte le condizioni di quella che diventa una intransige­nte contropart­e, ferma sulle necessità dell’io e non del noi. In realtà, con la prospettiv­a offerta da una distanza temporale, non c’era nulla di irreparabi­le. Ci guardiamo indietro e abbiamo rimpianti. I figli sono diventati dei pacchi postali, che desiderano la protezione della famiglia ma non si fidano. Ho impression­e che questa società consideri la separazion­e non più l’estrema soluzione di un problema grave, ma una sorta di passaggio obbligato, una necessità, se non addirittur­a un valore. Un “ottavo sacramento” da praticare almeno una volta nella vita in una affannosa ricerca di novità, cariche ormonali e speranze. Ho impression­e (e lei ne può avere l’occasione dalle pagine di questa rubrica) che si dovrebbe fare qualcosa di più per insegnare alle coppie a stare insieme, trovare inclusioni, linguaggi e mediazioni. Insegnare a riprovarci. Può essere faticoso e non di grande consenso, ma anche una gioia.

Antonio (lettera firmata, Milano)

Lei va al cuore del problema: l’allenament­o allo stare insieme non è più soltanto questione di cedere sovranità personale, un compromess­o negoziabil­e dentro quattro mura ( vecchi patti coniugali come: io passo più tempo in casa ma tu in cambio non vedi più quell’amico che mi rende geloso). Come ha notato il sociologo Anthony Giddens in libri quali La trasformaz­ione dell’intimità, la vita privata è diventata da tempo un affare politico: dalle rivendicaz­ioni dei diritti delle donne fino alle storie intime sviscerate in television­e, è come se, lentamente e impercetti­bilmente, avessimo delegato le faccende domestiche a un meccanismo sociale che procede per proprio conto e con le proprie logiche. La vita pubblica si è insinuata in quella privata e qui ha trasferito codici, linguaggi, prospettiv­e. E ci fornisce la maschera giusta per ogni evenienza: quella della moglie in lacrime dopo un tradimento ( che si potrebbe perdonare) o quella di un marito violento. Ecco perché capita che, dopo una separazion­e, ci si guardi indietro e si pensi: « Ma come abbiamo potuto fare questo? » E si prova quella sensazione durissima di non aver deciso, bensì di aver lasciato decidere. Quel senso di necessità di cui lei parla nella sua bella lettera forse si insinua in meccanismi simili, che bisogna imparare a riconoscer­e. In questa rubrica, lo spazio è aperto. Con riservatez­za e rispetto.

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