Nuccio Ordine
«Le conoscenze, anche quelle umanistiche, vanno poi misurate sul campo», spiega Stefania Giannini. E l’alternanza «risponde meglio alle sfide della modernità»
Il paradosso è sotto gli occhi di tutti: all’universale riconoscimento del ruolo fondamentale della scuola e dell’università per il futuro del Paese non corrisponde, di fatto, un adeguato investimento sul piano economico. Basta leggere i dati del finanziamento pubblico al sistema universitario per capire il baratro in cui siamo precipitati a causa dei tagli imposti dai diversi governi. Nel 2012- 2013 l’Italia ha destinato solo lo 0,42 del Pil (- 21% rispetto al 2008- 2009), mentre la Francia ha impegnato lo 0,99 (+ 3,9) e la Germania lo 0,98 (+ 23%). Ma non si tratta solo di soldi. C’è anche il pericolo di un progressivo processo di burocratizzazione della docenza che fa perdere di vista la missione principale di un professore: studiare e insegnare. Se la “buona scuola” la fanno soprattutto i “buoni professori”, bisognerebbe fissare delle regole certe e durature per il reclutamento, in maniera da chiudere per sempre con i perversi meccanismi che hanno creato un esercito di precari. Così come l’eccessiva attenzione per la “professionalizzazione” dei curricula sta mettendo sempre più in discussione il valore in sé del percorso formativo e la centralità della curiositas ( intesa come stimolo intellettuale alla libera ricerca). Il crescente orientamento verso il mercato rischia, pur- troppo, di trasformare l’istruzione stessa in un mercato. Su alcuni dei temi scottanti che investono la scuola e l’università, abbiamo intervistato il ministro Stefania Giannini. Si è trattato di un incontro cortese e animato. Con convergenze e dissensi che ogni dialogo franco può generare.
Non crede che il modello aziendalistico possa svilire il valore in sé dell’istruzione?
« È un tema importante che riguarda il dibattito internazionale e non solo quello italiano. Nel mondo anglosassone si è affermata l’idea che l’istruzione debba essere innanzitutto fondata su un modello di generazione e di trasmissione di conoscenza con al centro lo sviluppo delle competenze. Più che di aziendalismo, che circoscriverei alle parte organizzativa, parlerei piuttosto di pericolosi modelli eccessivamente orientati verso un sapere pratico. La cultura occidentale ci ha consegnato un sapere unico, unitario, fatto di scienza e di cultura ( si pensi a Leonardo). In Italia fino al Novecento siamo riusciti a essere fedeli a questa visione d’assieme. Poi abbiamo iniziato a subire l’influenza dei modelli anglosassoni e angloamericani. Ma ora che fare? Persistere sul modello fondato sulla conoscenza o inseguire il modello basato sulla praticità del sapere e sulle abilità tecniche? Con la recente riforma abbiamo cercato di mantenere il modello centrato sulla conoscenza ( con una forte attenzione per le competenze linguistiche) aperto però a un’interazione in cui l’allievo possa trovare nuove occasioni esterne per mettere alla prova le sue conoscenze » .
La logica utilitaristica sta creando una mentalità che penalizza il liceo classico. Non c’è il rischio di appiattire l’istruzione su modelli legati agli sbocchi del mercato?
« La formazione umanistica deve restare un pilastro fondamentale. Il fatto che il liceo classico non sia più seduttivo non dipende dal liceo, come lei stesso dice, ma dalla società che non riconosce alle discipline umanistiche quel valore che invece dovrebbero avere. Bisogna lavorare per sensibilizzare la società. Ma anche il liceo classico deve aprirsi a modelli formativi che prevedono maggiore protagonismo degli studenti ed esperienze di apprendimento anche all’esterno della scuola. Nella legge 107 abbiamo