Ernesto Ferrero
In Cina il ceramista veniva umiliato per strada
ra gli oggetti che Marco Polo porta a Venezia alla fine del suo lungo viaggio c’è un piccolo vaso custodito nel tesoro della basilica di San Marco. È alto dieci centimetri, porta un fregio in fogliame, la sua argilla è grigia e un po’ ruvida. È lo stesso Marco a ricordare che nella città di Tiungiu si fanno « le più belle scodelle di porcellane del mondo » , anche usate come moneta. Il segreto, dice, sta nel lasciare al sole e alla pioggia la terra dell’impasto per trenta o quarant’anni in modo che si affini. Prima di Marco, un viaggiatore arabo del
TIX secolo aveva parlato di un’argilla di eccezionale qualità con la quale i cinesi fanno scodelle « trasparenti come il vetro » . Questa porcellana è pura magia: è leggerissima, a solleticarla canta come un’arpa, lascia passare la luce del sole. È fatta di uno dei materiali che hanno sempre acceso la fantasia degli uomini: qualcosa che è capace di trasformarsi in altro, l’essenza stessa della sublimazione, della purezza. La struggente fragilità della bellezza. Il sogno di qualsiasi alchimista. Una metafora con la quale l’uomo si fa creatore di un mondo che ubbidisce a un disegno di controllo totale e d’armonia. Ci sono stati imperatori cinesi per i quali padroneggiare moltitudini di porcellane equivale ad avere un dominio simbolico sui sudditi, una mappa completa del proprio sterminato impero. Chissà che il Kublai Kan di Calvino non ne abbia parlato con il viaggiatore veneziano. A Venezia chiamano questo prodigio “porcellana”, ed è un po’ come abbassare un evento quasi mistico a una bassa materialità, a un parlar grasso. I vasi che arrivano dalla Cina sono così lisci al tatto da assomigliare a certe conchiglie marine, mirabilmente traslucide, la cui fessura ricorda la vulva della scrofa: della porcelletta, insomma. Per almeno cinquecento anni la porcellana cinese è il sogno proibito degli europei, un simbolo di stato, il top del collezionismo, accessibile solo ai re e ai grandi signori disposti a sborsare cifre folli. Per cinquecento anni il suo segreto di fabbrica resta un mistero inviolato. Un’ossessione nel segno del bianco, il colore assoluto, il simbolo d’una purezza rarefatta che non si accontenta di se stessa, e si proietta verso un limite mai raggiungibile e per questo tanto più agognato. Tra i sacerdoti del bianco c’è anche Edmund deWaal, cinquantenne inglese di origini olandesi, storico dell’arte, docente, eccellente scrittore, lui stesso ceramista