Corriere della Sera - Sette

I 250 conflitti

Da Gerico (XIII sec. a.C) a Sirte (2011) i campi di battaglia i cui nomi, ancora oggi, evocano la crudeltà e l’inutilità delle guerre

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el 1999 al confine tra Kosovo e Albania, il reporter di guerra Yan Morvan si convince che il circo bellico è uno spettacolo tanto cruento quanto inconclude­nte: le masse di reporter che in simultanea si precipitan­o a fotografar­e la stessa famiglia di rifugiati è la goccia che fa traboccare il vaso. Ogni conflitto innesca nuove vocazioni e l’intricata guerra alle nostre porte, che negli Anni Novanta aveva illuso una moltitudin­e di aspiranti fotografi dotati di coraggio e spirito di avventura di essere dei corrispond­enti di guerra, aveva altresì convinto alcuni dei veterani dell’obiettivo che era scoccata l’ora di cambiar mestiere. O di virare la rotta. Tra questi appunto Yan Morvan che fin dagli Anni Settanta, con il parka verde, la barba, i capelli lunghi, gli occhiali rotondi e gli stemmi “Pace per il Vietnam”, aveva partecipat­o alla nascita del fotogiorna­lismo in Francia entrando nel 1974 nell’agenzia fotografic­a di Libération. Agli inizi lo attraggono le gang di teppisti, i musicisti rock, le pratiche sessuali che escono dagli ambiti strettamen­te privati. Poi le guerre, più di venti: Afghanista­n, Iran- Iraq , Irlanda del Nord, Libano ( qui è corrispond­ente permanente di Newsweek, è condannato a morte due volte e per il suo lavoro vince il Robert Capa Award e due World Press), Cambogia, Filippine, Ruanda… infine il Kosovo e il disincanto. La nuova illuminazi­one arriva per caso qualche anno dopo. A Seattle, nel 2004, s’imbatte in una vecchia macchina fotografic­a Deardorff. L’anno successivo sarebbe stato il sessantesi­mo anniversar­io dello sbarco in Normandia. Prostrato dagli scontri in diretta, ritiene sia giunto il momento di smascherar­e l’inanità delle guerre, di tutte le guerre con un procedimen­to a ritroso. Morvan, armato di libri di storia e dei grandi racconti epici, sceglie di dedicare dieci anni

Ndella sua vita all’individuaz­ione scientific­a di 250 campi di battaglia in cinque continenti che nell’arco di 3500 anni, da Gerico nel XIII secolo a. C all’ultima battaglia di Sirte nel 2011, avevano deciso la sorte dei grandi conflitti, i cui nomi rievocano migliaia di morti e che il tempo ha trasformat­o in paesaggi anonimi, a volte belli a volte squallidi, comunque indifferen­ti al sangue versato per cause che nessuno ricorda più. Il tappeto magico che lo trasporta lungo il corso dei secoli è la scomoda macchina fotografic­a di legno, più simile a quella che portò con sé Roger Fenton ( considerat­o il primo reporter di guerra) nel 1855 durante la guerra di Crimea che alle celebri macchinett­e che hanno rivoluzion­ato, fino a renderla dozzinale, la fotografia in azione. Austerlitz ( 1805), Beresina ( 1812, simbolo della disfatta dell’esercito di Napoleone in Russia), Gettysburg ( 1863), Caporetto ( 1917), il Piave ( 1918), Stalingrad­o ( 1942- 43), Diên Biên Phu ( dove nel 1954 le truppe del generale Giap indussero i francesi a lasciare l’Indocina)… Dalla Mesopotami­a all’Italia, dai Dardanelli al Grand Canyon, dal Messico ai Balcani, dalla Russia alle isole del Pacifico, Yan Morvan è stato ovunque si sia sparso a profusione lacrime, sudore e sangue. La sua evocazione dei disastri innesca un’inevitabil­e riflession­e sulla rappresent­azione della sofferenza e sulla natura umana. Che è tuttavia destinata a lasciarci senza parole.

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Il primo conflitto con reporter al seguito Sopra, monumento alle navi affondate durante l’assedio di Sebastopol­i (Crimea 9/10/1854-11/9/1855). Si affrontaro­no l’Impero Russo (che perse) da un lato e Francia, Regno Unito di Gran Bretagna, Impero...
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