Corriere della Sera - Sette

Una giornata tra storie e personaggi pieni di Vidas

Ogni anno 150 persone si offrono volontarie nell’associazio­ne: «Contano motivazion­i, carattere, sensibilit­à», spiega chi li seleziona. Ecco come vivono e lavorano per non lasciare mai soli i malati terminali

- di Stefano Rodi

Se si salgono i gradini dell’ingresso di un palazzo di via Ojetti 66, a Milano, si entra in un’atmosfera che fuori, da decenni, nella vita quotidiana della città si è persa: quella di una comunità. Ne fanno parte medici, autisti, psicologi, impiegati, infermieri, dirigenti, assistenti sociali, giardinier­i, centralini­sti. E persone che devono morire; malati che non hanno più alcuna speranza di guarire. È l’Hospice di Vidas, quello che la fondatrice Giovanna Cavazzoni voleva si chiamasse sempliceme­nte “Casa”. Ci sono spazi luminosi, con grandi finestre, distribuit­i su tre piani. Sull’ultimo, una biblioteca si affaccia su un bellissimo terrazzo. Ci sono venti stanze, spaziose, tutte uguali, ognuna con il nome di un fiore alla porta. Lì in mezzo si praticano cure per tenere a bada il dolore, e si offre vita fino all’ultimo istante. Anche con dei concerti di musica, che può essere ascoltata da chi si sente e ha voglia di uscire dalla propria stanza. Sono spazi vissuti da un gruppo che mette insieme tante risorse individual­i, e trova l’armonia per aiutare chi ha il suo nome già scritto sulla « lista d’attesa per l’ultimo viaggio » , come diceva Giovanna Cavazzoni, morta il 20 maggio dello scorso anno ma che in questo luogo continua a vivere, a essere presente per chi l’ha conosciuta da vicino. « Io la sento qui ogni giorno, mi viene da dire a ogni momento. È un po’ come quando ti innamori davvero di qualcuno e senti la sua presenza anche se è lontano. Per me è così da quando è venuta a mancare » osserva Federica Giussani, una delle tre coordinatr­ice dei circa 100 volontari che la-

vorano sia in Hospice sia a domicilio dei pazienti. Le altre due sono Roberta Brugnoli e Monica Pontremoli. Giovanna Cavazzoni era una donna unica, che ha seminato pensieri importanti e a Vidas si vede che continuano a crescere, come la Casa sollievo bimbi che sta sorgendo a fianco dell’Hospice. Diceva, anzi scriveva, più di 10 anni fa: « Sacrifici, rinunce, altruismo: ma chi pensa più o anche solo pronuncia queste parole che cadono così fuori d’uso? Un tempo l’ “educazione sentimenta­le” era pratica del quotidiano. Il rispetto, il senso della giustizia, il capire che senza “esercizio del dono” non ci sarà mai armonia sociale, che non saper togliere qualcosa di significat­ivo a sé per riequilibr­are il poco o il nulla dell’altro crea solo reazioni negative e odi a catena che alla fine investono tutti e fanno ammalare l’intera società » . Non si è rassegnata a questo stato di cose e, nel suo orizzonte, l’ha cambiato.

Il senso di stare al mondo. Ogni anno sono circa 150 le persone che si offrono per fare i volontari di questa associazio­ne. Ci sono colloqui individual­i, di gruppo, e poi un corso di formazione; alla fine se ne seleziona una ventina. Di solito chi inizia non smette. « Il loro sguardo » , osserva Roberta Brugnoli, « si integra a quello degli altri operatori e a volte sono loro a raccoglier­e gli elementi più preziosi per seguire un malato o i suoi famigliari. La cosa più im- portante sono le motivazion­i, il carattere, la sensibilit­à » . I volontari fanno parte a tutti gli effetti dell’équipe che segue il paziente. Anche le persone che hanno delle fragilità possono riuscire bene. Dipende dal loro desiderio di farcela, e dalla loro capacità e voglia di mettersi in discussion­e. « L’esperienza ci insegna che come volontari funzionano meno le persone che hanno caratteri molto solidi e sicuri di sé » osserva Roberta Brugnoli. « Può sembrare strano ma non aiuta avere certezze. Meglio l’elasticità » . Nel corso si insegna che i giudizi vanno sospesi, quello che conta è accogliere i desideri di chi in quel momento ha bisogno. Paziente e famigliari. Più che saper rispondere serve ascoltare. Chi ha troppe convinzion­i indiscutib­ili, non è adatto a far parte di questo gruppo. « Il volontario » precisa Roberta Brugnoli « è disposto ad accettare qualunque tipo di situazione umana, ideali politici o fedi religiose che si trova di fronte. Questo non significa annientare sé stessi, o cancellare le proprie idee. Anzi » . Incrociand­o gli sguardi e parlando coi volontari di

Vidas, anche in un solo giorno trascorso nell’Hospice, si capisce che pur essendo molto diversi gli uni dagli altri, hanno un tratto comune: la serenità: « Sono persone che stanno bene e vogliono restituire agli altri ciò che loro sentono di aver ricevuto dalla vita » , dice Federica Giussani. Sorridono spesso, sono curiosi, aperti, morbidi. Per fare il volontario di Vidas, e quindi entrare in questa comunità che si stringe attorno a chi muore, devi stare bene con te stesso. Per affrontare la morte, in questa società che tenta di cancellarl­a dalla propria cultura, ci vuole talento. « Chi serba memoria di com’era la vita solo mezzo secolo fa » , scriveva Giovanna Cavazzoni nel 2013, « si chiede perché, in così breve periodo, la morte, allora accettata come parte integrante dell’esistenza sia diventata prospettiv­a terrorizza­nte, una nemica da sconfigger­e, almeno con la totale emarginazi­one » . Spesso i volontari sono vivaci, vitali, anche molto spiritosi con un senso dello humor spiazzante, ma umili di fronte al prossimo. Le tre coordinatr­ici, che da ormai diversi anni tengono insieme e guidano questa squadra, prima erano soprannomi­nate le “hoSpice Girl” mentre adesso, visto che anche per loro l’età avanza, sono diventate le “Tre Grazie”. « Chi lavora con noi ha dentro un bel motore. Un giorno » , racconta Federica Giussani, « ho telefonato a uno di loro, Gino Castelli, per fargli i compliment­i perché stava seguendo in modo straordina­rio un caso molto difficile di un paziente a domicilio. Mi ha risposto così: « Va bè Fede, grazie, grazie, ma che c... o ci stiamo a fare al mondo se non ci aiutiamo uno con l’altro » . Il valore dei ricordi. Nell’Hospice, o nelle case dei pazienti, si incrocia l’umanità più variegata. C’è chi muore da solo, chi circondato da parenti o amici, oppure altri che hanno parenti e amici che svaniscono nel nulla e di cui si perdono le tracce per sempre. C’è stata una signora che nei suoi ultimi giorni di vita ha detto “io devo trovare il coraggio di dire a mio marito che voglio divorziare da lui”. Lo ha trovato, poi è morta. « La fine della vita è un momento dove a volte esce un’autenticit­à che può essere rimasta sopita per tutta la vita. E non sempre è una cosa bella » , racconta Sonia Ambroset, una delle psicologhe del gruppo. « Mio padre, nei suoi ultimi giorni di malattia in casa ha deciso che non voleva più mangiare. A mia mamma, che gli disse “Mario, devi assolutame­nte nutrirti in qualche modo se no non scendi più dal letto”, lui rispose: “Adesso basta. Adesso finalmente comando io” » . La morte fa sempre più paura anche per ciò che può lasciare sulle spalle di chi resta. Gli psicologi di Vidas si occupano di non lasciare solo chi se ne va, ma anche chi continua a vivere. Sono a disposizio­ne per un supporto a parenti e amici che hanno subito un lutto, e un mercoledì al mese l’associazio­ne organizza una Cena del ricordo, per chi vuole commemorar­e insieme le persone che non ci sono più. Katia Trussardi ha scelto di prendere il part- time nel negozio di abbigliame­nto dove lavora, per avere il tempo sufficient­e di fare la volontaria a Vidas. « Ho perso mia mamma quattro anni fa in un altro Hospice e mi è cresciuta dentro la voglia di rendere una parte di ciò che ho ricevuto. La vita scorre talmente veloce che è meglio fare subito ciò che si sente. Io cresco insieme ai pazienti che assisto. Anche se loro se ne vanno, io resto e mi porto dentro qualcosa di loro » . Alberto Calcinai, che oltre a fare il volontario è anche il fotografo “ufficiale” di Vidas, visto che questa è la sua profession­e da 40 anni, osserva che « nel corso di preparazio­ne si insegna che è molto importante anche il contatto fisico con chi soffre. È verissimo: una carezza e uno sguardo a volte dicono molto più delle parole » .

«Un volontario che stava lavorando bene con un paziente mi ha detto: che viviamo a fare se non ci aiutiamo l’un l’altro...»

La riunione quotidiana. Alle 14, tutti i giorni, si tiene un briefing dove si ritrova l’intera équipe, guidata da Giada Lonati, medico specializz­ato in cure palliative, che dal 2010 è la direttrice sociosanit­aria di Vidas, per aggiornare tutti i casi che si stanno seguendo all’interno dell’Hospice. La riunione si apre con la relazione sulle condizioni di un nuovo paziente arrivato nella camera Orchidea due ore prima. Poi si affrontano tutti gli altri casi delle persone ricoverate, tra cui un bambino di tre anni e una ragazzina filippina di 14. Parlano a turno, medici, infermieri, volontari, a seconda dei casi ognuno dice la sua. Spesso il discorso comincia con il nome della stanza dove è ricoverato il paziente: Azalea, Bucaneve, Ciclamino, Dalia, Erica, Fiordicili­egio... Maria Rosa Lonzar, che lavora con Vidas da 15 anni, dovendo sintetizza­re la sua esperienza dice che « si tratta di un volontaria­to che aiuta a capire la vita delle persone » . Forse, sentendola parlare, anche la vita in generale. Ogni volontario è legato a tutti i casi che ha seguito. In totale, in questi 35 anni di attività, sono stati 33 mila: un paese. Ma se glielo chiedi, di solito, c’è n’è uno che ha lasciato ricordi più intensi degli altri. Per Marina Carnelutti, che è con Vidas da 13 anni mentre prima faceva l’insegnante di educazione fisica, è quello di Viviana. « Aveva 65 anni, era una donna sola ed è stata sicurament­e la persona più incredibil­e che ho incontrato, non solo qui dentro. Quando sono entrata nella sua stanza, non ci eravamo mai incontrate prima. Sapevo solo che, nonostante il dolore, non voleva essere sedata. Ci siamo date del tu e lei poco dopo mi ha detto: “Io sono sempre stata curiosa della vita, vuoi che rinunci a vedere che cosa succede in questi ultimi momenti quando finisce?”. Sono stata con lei fino alla fine, abbiamo anche riso. Era una donna colta. Non era credente, ma abbiamo parlato di come si poteva immaginare l’aldilà. Guardava fuori dalla finestre, salutava le case, gli uccelli, il cielo » . Con i volontari i pazienti a volte trovano una spontaneit­à che non può esistere con chi li conosce bene. Scatta una confidenza immediata, senza vincoli, che consente un’intesa neutrale. C’è anche la gioia delle piccole cose, che fa dimenticar­e per brevi momenti ciò che si ha attorno, forse un po’ anche la fine della vita. « Grazie ai nostri malati, grazie a tutti voi che vi siete lasciati coinvolger­e in questa grande avventura, coinvolti nella mente e nel cuore. Insieme a voi ho trovato la possibilit­à di una vita più autentica, appassiona­ta, serena e il miracolo dei sogni diventati opere » . Giovanna Cavazzoni ha scritto queste parole pochi giorni prima di morire, proprio in questa “sua” casa, nella camera Dalia.

 ??  ?? I volti dell’impegno Nelle foto piccole, in senso orario: le tre volontarie Maria Rosa Lonzar, Katia Trussardi e Marina Carnelutti. In basso a destra, Roberta Brugnoli, responsabi­le della selezione e formazione dei volontari. Sopra, la psicologa Sonia...
I volti dell’impegno Nelle foto piccole, in senso orario: le tre volontarie Maria Rosa Lonzar, Katia Trussardi e Marina Carnelutti. In basso a destra, Roberta Brugnoli, responsabi­le della selezione e formazione dei volontari. Sopra, la psicologa Sonia...
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 ??  ?? Una comunità A sinistra, un corridoio all’interno dell’Hospice di Vidas a Milano. Al centro, un infermiera con una paziente. A destra, la riunione dell’équipe, della quale fanno parte medici, psicologi, assistenti sociali e volontari. In basso,...
Una comunità A sinistra, un corridoio all’interno dell’Hospice di Vidas a Milano. Al centro, un infermiera con una paziente. A destra, la riunione dell’équipe, della quale fanno parte medici, psicologi, assistenti sociali e volontari. In basso,...
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Lo spirito di gruppo Sopra, una parte del personale di Vidas, con un gruppo di volontari. A fianco, Federica Giussani (a sinistra) e Monica Pontremoli, le due coordinatr­ici dei volontari.
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