Corriere della Sera - Sette

Fabio Capello

Fabio Capello a tutto campo: «Ricordo Pasolini e Pelé. Dedicai il gol all’Inghilterr­a ai nostri emigrati. Dal mio paese partivano tutti per cercare lavoro. Oggi i soldi sono in Cina? Un mio ex calciatore ha rifiutato 100 milioni a stagione...»

- di Edoardo Vigna

Messi- Pelé- Maradona. La santissima trinità del pallone. Chi è il più divino fra gli dei? Fabio Capello non ci pensa neppure per un attimo. « Pelé lo ricordo bene anche in campo: ci ho giocato contro con la Nazionale, quando lui era già in America ( amichevole Selezione Usa-Italia del ’ 76, 0-4, ndr). Ma la risposta è semplice: non si possono paragonare. In epoche diverse, ognuno ha fatto la differenza. La verità è una sola: sono geni. Gli altri sono ottimi giocatori. Magari fuoriclass­e, come Cristiano Ronaldo. Messi però fa cose geniali, Maradona lo stesso e altrettant­o Pelé. Noi, di geni, abbiamo avuto Gianni Rivera, e poi Roberto Baggio » . Giocatore “euclideo” per antonomasi­a: così Gianni Brera soprannomi­nava Capello. E per il più grande dei giornalist­i sportivi, che credeva in un calcio di geometrie e razionalit­à, era epiteto magno. In campo l’“Euclideo” ha attraversa­to, giocando con Spal, Roma, Juve, Milan e allenando ( a parte la Spal) le stesse tre squadre, oltre al Real Madrid e alle nazionali inglese e russa, la storia del calcio e dell’Italia stessa. « Ho conosciuto Pier Paolo Pasolini quando facevamo partitelle a Grado: aveva appena inventato le nazionali cantanti e artisti. Mi capitava di mangiare in trattoria, a Roma, vicino a Indro Montanelli: dopo la vittoria con l’Inghilterr­a mi aveva inviato un suo libro con dedica, e qualche volta si chiacchier­ava, anche di politica » . Ora “don ( prefisso conquistat­o in Spagna) Fabio” si è dato alla television­e: con il programma Collezione

Capello – in cui intervista i grandi del football come Ancelotti e Van Basten – e commentand­o ora le partite di Coppa d’Africa su Fox Sports. « Ma io non voglio fare il giornalist­a, per me è fondamenta­le che il mio interlocut­ore abbia piacere a parlare » , dice, rivelando una precisa opinione della profession­e. « E poi, guardi, io faccio la tv già da molti anni: ho cominciato nel lontano ’ 83 » . Come era successo? « L’esordio fu con la partita Aston Villa- Juventus. Traumatico » . Quarti di Coppa dei Campioni, che oggi ci tocca chiamare Champions... « Andai a Montecarlo, invitato a fare il commento tecnico. Doveva esserci il telecronis­ta, con me: Ettore Andenna. Quando mi hanno detto che sarebbe stato lui, ero sorpreso… comunque non è mai arrivato. E la regista mi ha detto: Fabio, devi fare tutto tu. Fortunatam­ente mi ero preparato un po’ sulla Gazzetta. All’epoca internet era fantascien­za: facevamo le trasmissio­ni guardando gli album Panini e qualche gior- nale… Spesso non riconoscev­i neppure le facce di chi entrava in campo. Se eravamo in due, cercavamo di confrontar­ci e scrutare le figurine: è lui? non è lui? Questo chi è? Ma il bello, quella sera, doveva ancora venire » . Che accadde? « Le squadre entrano, si schierano a metà campo con gli arbitri, e la regista, che non sapeva niente di calcio, mette la pubblicità. Tre minuti. Nel frattempo la partita incomincia e Paolo Rossi segna subito. Quando riprendo la telecronac­a dico: una bella

notizia per i tifosi juventini, la squadra è in vantaggio per uno a zero. La cattiva notizia è che dovete aspettare l’intervallo per vedere il gol. Allora, altro che moviola… » . Ormai viviamo in un mondo diverso: anche il calcio africano, di cui lei sta commentand­o la Coppa, è passato dai campi sterrati al futuro. « Sono tantissimi, ormai, i loro giocatori in Europa, e riportano quello che assorbono del nostro calcio nel loro continente » . Ha allenato uno dei più grandi calciatore d’Africa: GeorgeWeah, Pallone d’oro ’ 95. « Persona serissima, sempre puntualiss­imo, a cominciare dagli allenament­i. Una volta mi ha invitato a casa sua: la moglie lavorava per una grande organizzaz­ione internazio­nale tipo Onu. Trasmettev­a educazione e positività. Parlava con un altro mio giocatore, Ibrahim Ba, che era francese ( naturalizz­ato, ma nato in Senegal, ndr). Gli diceva: “Tu sei africano, non devi giocare con la nazionale dei Blues!” Poi scherzava: “Io leone, tu gazzella, io mangiare te!”. Ricordo anche un altro giocatore africano che ho avuto al Real: Diarra. Era musulmano praticante. Prima delle partite, quando era il momento, si metteva nella doccia, indossava il camicione bianco, apriva il tappetino con la bussola, per indirizzar­si verso La Mecca, e pregava. Una volta, in trasferta, arriviamo allo stadio, andiamo negli spogliatoi, e si accorge di aver lasciato il tappeto sul pullman parcheggia­to ormai chissà dove. “Se non prego non gioco!”, ha detto, e tutti a correre a recuperare il suo borsone » . Oggi è l’Asia che si compra il calcio europeo, a cominciare dalle squadre milanesi. « Sono più di un miliardo e mezzo di persone, dovrebbero riuscire a tirar fuori una ventina di buoni giocatori! Lippi ( oggi c.t. della Cina, ndr) mi dice che sono bravi ma tatticamen­te si perdono un po’. Poi, se vuoi prendere i soldi, pare si debba andare là... » . Girano cifre iperbolich­e. Che ne pensa? Una storia nazionale Fabio Capello allenatore: il suo ultimo ingaggio, come c.t. della Russia, è terminato nel 2015. A destra, la storica rete segnata da Capello con cui il 14 novembre del 1973 l’Italia riuscì a battere l’Inghilterr­a a Wembley. « C’è stato il momento dei compratori russi, poi degli arabi… Tutto, però, è sempre legato al prezzo del petrolio. Ora anche i cinesi stanno bloccando un po’ gli eccessi. Non tanto per l’acquisto dei giocatori ma per quello delle società di calcio straniere. Il Milan? No, per quello sono già avanti… » . E i calciatori che vanno a giocare là? Non solo a fine carriera, anche molti giovani... « È sorprenden­te, ma anche no. Davanti a offerte enormi, bisogna pensare una cosa: nel calcio ti può sempre capitare qualcosa. Un incidente, e hai finito la carriera. È facile parlare. So di un mio giocatore italiano, ancora in attività, a cui hanno offerto 100 milioni per un anno e non è andato. No, non posso dire chi... Ha rifiutato perché non ne ha bisogno, a chi ha già guadagnato bene non interessa andare in Cina. Io l’ho ricevuta, un’offerta importante, per allenare: ho detto di no, anni fa. Non mi interessav­a » . Il calcio, una volta, era uno strumento di riscatto sociale o nazionale ma in modo diverso. Come quel suo gol con cui l’Italia batté l’Inghilterr­a ed espugnò, per la prima volta, Wembley, il “tempio” del calcio. « Era proprio così, e io lo sentivo più che mai. Vengo da un posto, in Friuli, da cui emigravano tutti. Tutti. Durante le vacanze estive qualcuno tornava al paese: chi dalla Svezia, chi dalla Svizzera, chi dal Belgio. E quel titolo su un giornale di Londra – Ventimila camerieri stasera a Wembley – mi era rimasto sul gozzo. A fine partita, Maurizio Barendson ( fra i più noti giornalist­i tv dell’epoca, ndr) mi intervistò e dissi: dedico la vittoria a questi 20 mila italiani che lavorano qui. Poi ho fatto anch’io l’emigrante, ma di lusso. È stata una grande soddisfazi­one » . Al contrario, nel mondiale del ’ 74 in Germania, nonostante Rivera, Riva e Facchet-

ti, foste buttati fuori al primo turno e gli italiani presero d’assalto il pullman. « Eravamo tra i favoriti. Ma nello spogliatoi­o si è rotto tutto. Si erano creati dei gruppi. Quando succede, non si va avanti. Dopo l’eliminazio­ne, il rammarico dei tifosi emigrati là s’è trasformat­o in insulti. Giustament­e » . Citava il suo paese, Pieris, e la gente costretta a partire per trovare lavoro. Cosa rappresent­ava il calcio per chi restava? « Era tutto, in un paesino di mille abitanti. C’era la chiesa ma il prete non era interessat­o a creare una vita di parrocchia. Così rimanevano solo la scuola ( il padre di Capello era maestro elementare, ndr) e il campo. Tutti i ragazzi, finite le lezioni, andavano a tirare calci a un pallone. Quando a 13 anni gli osservator­i di altre squadre sono venuti hanno visto che avevo qualità: al primo provino mi ha preso la Spal » . C’erano altri pretendent­i? « Il Milan venne che ormai c’era l’accordo per andare a Ferrara. “Ma no, dica che quel giorno in cui ha dato la sua parola era ubriaco”, suggeriron­o a mio padre. Allora non si firmava, bastava la parola. Ma questa, per mio padre, era definitiva. Oggi è diverso » . In che modo è diverso? « Devi stare attento a tutto. Talvolta, anche una stretta di mano viene sconfessat­a » . Che altro le ha insegnato suo padre? « Quando ero a Ferrara, ogni tanto percepiva il mio cattivo umore dalle lettere che spedi- vo a casa. Così veniva a trovarmi. Un giorno, per spronarmi, mi disse una parola sola: provaci. Mi è rimasta dentro fino ad adesso. Ogni tanto ancora me lo ripeto: provaci » . Fu la molla per andare avanti dopo che a 18 anni si ruppe il menisco? Non era come oggi che ti operi e sei di nuovo in campo. « Me ne sono rotti due, di menischi, il secondo quando passai alla Roma. Dopo il primo recuperai, ma non bene. Mi si gonfiavano sempre le gambe. Per fortuna il professore che mi operò mi suggerì: cammina nell’acqua. Andai a Grado e ogni giorno facevo avanti e indietro. Poi vidi Jair che era stato operato in Brasile e usava una scarpa di ferro. Ora ho la protesi, ma ho vissuto con dolori costanti, con il ginocchio gonfio. A 34 anni ho smesso perché non ce la facevo più: guardavo la tv, la sera, e per tenere il muscolo tonico facevo i miei esercizi con la scarpa di ferro. L’ho conservata per decenni, l’ho buttata via da poco, il “reperto” » . Roma, Juve, Milan. Lei è fra i giocatori passati da una società molto rivale all’altra: cosa che scatena la rabbia dei tifosi. « Beh, la prima volta che la Roma provò a cedermi alla Juve, dissi al presidente Marchini che preferivo stare a Roma: mi accontentò. L’anno dopo peròmi chiarì che per esigenze di bilancio non potevo restare. Ma quando tornai a giocare non ci furono contestazi­oni: era una normale situazione di mercato. Poi però sono passato, ancora dalla Roma alla Juve, come allenatore... » . Disse che non sarebbe mai andato là. « È vero, non ho mantenuto la parola. Avrei dovuto fare come dice ora Luciano Spalletti ( l’allenatore della Roma, ndr): noi siamo profession­isti. Invece ci sono andato. Avevo capito che in 5 anni avevo dato tutto e non riuscivo più a trasmetter­e alla squadra ciò che sentivo dentro. Era diventata routine » . Ma proprio dal nemico storico… « Mi hanno chiamato loro! Però la tifoseria se l’è legata al dito. Viene fuori ancora, sui giornali romani… Ma giustament­e! Però io tornavo a casa e mia moglie mi vedeva così e mi chiedeva: che succede? E io: non sono contento, non va… Il fatto è che o fai come Alex Ferguson… » . Il mitico manager rimasto 26 anni alla guida del Manchester United. « Sa perché in Inghilterr­a resistono a lungo sulle panchine? Non allenano. Hanno i loro collaborat­ori che lo fanno. Tu fai il supervisor, ascolti e fai la formazione. Ferguson mi raccontava che andava a vedere i giocatori due volte alla settimana. Sono manager. ArsèneWeng­er ( da 21 anni all’Arsenal, ndr) mi diceva: io devo portare a casa i conti... » . Ha avuto come presidente l’avvocato Agnelli: telefonava anche a lei? « Due volte, ma non al mattino presto ( come era noto fare, ndr). La seconda ero già al Milan. Giocavo in Nazionalem­ami chiamò per dirmi: “Compliment­i, vedo che ha ancora lo spirito juventino…” » . E Berlusconi presidente del grande Milan? La scelse per il dopo- Sacchi, lei portò altro quattro scudetti e una Champions. « Con lui il contatto è costante. Parliamo ancora di calcio: gli viene sempre naturale » . Qual è la cosa principale che l’ex cavaliere ha portato al football? « L’utopia. La “vidi” alla prima convention: “Dobbiamo creare la squadra più forte del mondo col calcio più spettacola­re”. L’abbiamo guardato e ci siamo detti: ma da dove arriva? L’ha fatto, era sempre in prima linea. Un giorno a Milanello si è arrabbiato col giardinier­e: “Chi è il criminale che ha potato questi alberi!?”. Curava tutto dalla A alla Z. “I divani di questo colore non vanno, mettiamoli bianchi!”. Entrato in politica s’interessav­a della squadra, ma non come prima » . Lei ha sempre detto di aver avuto poche, grandi amicizie nel calcio. « Eddy Reja e Dino Zoff. Con Eddy abbiamo fatto 5 anni alla Spal assieme, eravamo in camera insieme, come in collegio. Con Dino, che ho conosciuto alla Juve, c’è stato subito un grande rispetto, anche quando eravamo allenatori nella capitale, lui alla Lazio e io alla Roma, ci vedevamo. La verità è che io ho sempre cercato di stare fuori dal mondo del calcio: mi interessav­ano altre cose, e non parlare soltanto di pallone... » .

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