Capitolo uno: ecco a voi Trump
L’idea dell’euro non mi è mai piaciuta. Fin dal primo giorno. E non mi piace nemmeno adesso. Credo che complichi le cose, a dire il vero. Tutta quella burocrazia a Bruxelles, così tante differenze tra i singoli Stati, come la tassazione. Non mi piaceva quando è venuto fuori l’euro e non ho certo cambiato idea». Donald Trump condanna l’euro. L’attimo seguente se la prende con Angela Merkel, Barack Obama, e Hillary Clinton. Subito dopo passa a magnificare sia la Brexit che Vladimir Putin. Per poi lanciarsi in un racconto celebrativo sul suo nuovo campo da golf, appena risistemato, in Scozia. È fatto così. Trump è seduto a un elegante tavolo di mogano laccato nell’area salotto del Trump Force One, un lussuoso Boeing 757 parcheggiato nella zona di carico e scarico del George Bush Intercontinental Airport di Houston. È il 17 giugno 2016, tre giorni dopo il settantesimo
compleanno di Trump, cinque giorni dalla carneficina del Pulse a Orlando. È passato quasi un anno esatto dal celebre giorno in cui l’impetuoso miliardario, scendendo dalla scala mobile della Trump Tower, ha annunciato la sua candidatura. Fuori, sull’asfalto bollente, ci sono 37 gradi, è un pomeriggio di giugno e l’enorme aereo è circondato da una dozzina di Chevrolet Suburban grigie corazzate dall’aspetto minaccioso – con dentro dei tipi che fanno certamente parte dei Servizi Segreti – e da Cadillac Escalade nere di proprietà dei finanziatori texani di Trump. Il candidato repubblicano in pectore mi fa cenno di spostare una cravatta poggiata sulla sedia di fronte a lui, e per un momento tengo tra le mani la famosa cravatta rossa, la preferita di Trump. Insieme all’abito su misura di Brioni, è una specie di marchio di fabbrica. La indossa sempre quando se ne va con il jet in giro per l’America, in campagna elettorale per la Casa Bianca. Trump è appena arrivato da San Antonio, dove ha partecipato a un evento di raccolta fondi, e si prepara ad affrontarne un altro nei ricchi sobborghi di Houston. Dopo poche ore volerà a un comizio a Phoenix, e indosserà i panni incendiari del personaggio pubblico, guidando migliaia di sostenitori nel rabbioso coro: «Costruiamo quel Muro! Costruiamo quel Muro!». Ma in questo esatto momento è nel suo covo, a proprio agio e al sicuro. È rilassato, affabile, perfino misurato; ha appena messo le mani sulla nomination repubblicana. [...] Giura che se verrà eletto presidente spazzerà via l’Isis e tutto «il terrorismo islamico radicale» dalla faccia della Terra. Non dice come ci riuscirà. «Credimi», ripete con la sincerità del venditore consumato, «lo faremo». [...] Su quel Boeing 757 Donald Trump parla di Putin con ineffabile ammirazione, e quando gli riferiscono che il dittatore russo lo ha elogiato durante una conferenza a San Pietroburgo, soltanto il giorno prima, diventa quasi rosso. Dice che gli piacerebbe invitare Putin alla Casa Bianca, e che loro due insieme sarebbero capaci di unire le forze per sconfiggere l’Isis e i cattivi di turno, ovunque si nascondano. [...] Trump non appare diverso da quello che è: un ricco immobiliarista di New York, un abile affarista più sfrontato che elegante, un uomo guidato da un grande fiuto per tutto ciò che può rafforzare il brand Trump, la favola che si è costruito, la sua personale versione della verità. [....]».