Prime reazioni al Sessantotto
L’articolo di Roberto Cotroneo ha scatenato i nostri lettori. Sono già giunte in redazione centinaia di commenti. Cominciamo a pubblicarne alcuni, dando voce a opinioni tra loro diverse
Ho lavorato (anni 60 e 70) in due grandi aziende piemontesi, ambedue protagoniste e vittime del clima di quegli anni. Una era diventata, suo malgrado, una specie di incubatore di fiancheggiatori intellettuali della sinistra extraparlamentare, parte della quale, come si sa, approdò anche al terrorismo; l’altra aveva instaurato nelle fabbriche e negli uffici una specie di controllo di polizia contro chi manifestava simpatie per tale “rivoluzione”. Due atteggiamenti evidentemente sbagliati, per ragioni diametralmente opposte, ma che traevano origine dalle opposte culture aziendali. Sono d’accordo che il Sessantotto fu l’inizio di una fine: l’intolleranza di chi aveva deciso di cavalcare l’onda rivoluzionaria nei confronti di quelli che nutrivano dubbi e perplessità, si respirava come un pesante veleno. Sì, anche nelle aziende, quelle più importanti, e fra impiegati e dirigenti, gli uni contro gli altri. Perché, in un caso, quelli che non si allineavano rapidamente alle nuove idee e al nuovo pensiero venivano semplicemente emarginati. Venivano considerate persone incapaci di adeguarsi al nuovo, piombo nelle ali della fantasia e della creatività, fondamentalmente nemici. Mentre, nell’altro caso, quelli che non condividevano il clima di polizia instaurato all’interno dell’azienda, veniva visto con sospetto, ed egualmente emarginato. Anche i rapporti personali e famigliari in quegli anni furono sconvolti. Nulla fu più come prima, ma soprattutto nulla fu più possibile ricostruire. Ovviamente il Sessantotto portò anche benefici (partecipazione e desiderio di verità), ma i danni, le lacerazioni, la mancanza di rispetto per la cultura del merito, dell’impegno e delle relazioni, l’uso riprovevole di un linguaggio scorretto e aggressivo, furono perdite ancor oggi non sanate.
— Pietro Duosi, Trieste
Non mi è piaciuto l’articolo di Cotroneo sul ‘68. Creare un legame tra il ‘68 e i morti per terrorismo negli anni Settanta, senza altre considerazioni, mi sembra sciatto. Quei morti vengono da lontano, vengono dalla situazione italiana del dopoguerra, da Portella della Ginestra, dal piano Solo, dalle trame golpiste, dai fatti di Avola e Battipaglia, dall’anomala situazione italiana in tempi di Guerra Fredda. Non bisogna fare il paragone con la Francia, ma con la Grecia, se ci si riferisce a quegli anni. «Ma che cosa accadeva in Italia prima del ‘68? In una parola: tutto», scrive Cotroneo. Ma non cita “cose” politiche, il governo Tambroni o il piano Solo o il primo governo di centro-sinistra, cita cose culturali, dal cinema alla letteratura alla musica. Poi, nel decennio 68-78, ci sarebbe stato il deserto culturale. Ne è proprio sicuro? Consulti un po’ le date di uscita di alcuni film, per esempio quelli di Risi, ma se consulta bene ne trova degli altri; e Sciascia e Calvino non continuarono a scrivere? ... Infine, il ‘68, col 18 politico avrebbe abolito «ogni forma di meritocrazia». Proprio vero: la Democrazia Cristiana, era un baluardo di spinte meritocratiche, loro erano nemici di ogni “raccomandazione”, la vedevano come il fumo negli occhi, volevano ad ogni costo la meritocrazia, ma non avevano abbastanza potere, il potere era tutto nelle mani dei sedicenni, dei ventiduenni, di quelli che diffidavano di chi avesse compiuto trent’anni. E ci hanno affossati.
— Lucio Sessa
Era ora che si cominciasse a ripensare il ‘68 senza condizionamenti ideologici. Il ‘68 ha rappresentato un regresso per aver demolito i valori dello sviluppo della società italiana del dopoguerra. L’egualitarismo, l’irresponsabilità libertaria, l’illusione delle risorse illimitate, il pauperismo terzomondista sono serviti a preparare la crisi degli anni 70 con le violenze, il terrorismo, gli sprechi della politica, la crisi economica. Infatti, la spesa pubblica è esplosa dando luogo all’aumento patologico del debito pubblico. Il virus della protesta finalizzata alla demolizione dell’avversario e alla conquista del potere non ci ha abbandonato. Chi si richiama ai valori del rispetto delle regole e del merito è quasi sempre accusato di mentalità reazionaria. — Augusto Zodda
Cotroneo boccia il movimento definendolo nientemeno che fenomeno reazionario, che bloccò l’Italia. Nel ‘68 avevo vent’anni e l’immagine non sbiadita che porto fissa nella mente va a corrispondere alla separazione dei banchi in chiesa tra maschi e femmine. Eravamo dominati dai “curati”, che con i loro performanti diktat hanno modellato le nostre vite; la ribellione ha vinto la sopraffazione garantendo la nostra autonomia di pensiero. — Renzo Andreoli
Sono nato nel 1948 e il mio primo anno di università alla Statale di Milano fu quello del 1968/69. A un piccolo gruppo di giovani e non giovani di allora fu subito chiaro cosa significasse l’ubriacatura sessantottina. La demolizione di ogni merito e di ogni scala di valori. Lo scassinamento della scuola di allora fu una bella fregatura per chi, non avendo patrimoni di famiglia o posizioni sociali già acquisite, pensava con la scuola di salire i famosi gradini della scala sociale. ... Una bella schiera di intellettuali, case editrici e giornali su questo processo disgregativo ha costruito le proprie fortune... Ricordo lo sgomento di mia madre, insegnante di lettere classiche, allorché si confrontava con i giovani colleghi professori sessantottini scaturiti dai corsi abilitanti... Formidabili quegli anni? Certamente per chi ha campato sulla destrutturazione dei cervelli altrui . — Leonardo Maladorno