Saggistica
La parabola di Marco Pannella e la crisi irreversibile del suo partito sono la metafora di un Paese che non ama la laicità e le libertà civili
Quando l’antipolitica, prima di trasformarsi in una sorta di Rocky Horror Picture Show, era un’impresa seria e importante, che non parteggiava come oggi per la conservazione ( decrescita, odio superstizioso per la scienza, nichilismo istituzionale) ma si proponeva di modernizzare il Paese, Marco Pannella e i suoi commando radicali erano la prima linea della rivoluzione. Era l’Italia degli anni Settanta, il Bel Paese delle P38 e del compromesso storico, dove da un pezzo la libertà, come si dice, aveva smesso di « fare problema » . Popolata da antidivorzisti, marxisti bacchettoni, fanatici delle leggi speciali, antiabortisti, proibizionisti a prescindere, cacciatori di « froci » , neofascisti disposti a tutto e ultras del comunismo armati fino ai denti, era un’Italia che praticava l’ « ultraviolenza » in stile Arancia Meccanica e dove si coltivavano idee che non erano mai particolarmente chiare ma che in compenso erano sempre fisse e deliranti. In questo mondo impazzito, che viveva l’evoluzione liberale dei costumi come un incubo, il Partito radicale di Marco Pannella era una delle rare oasi di sanità mentale, come racconta con passione e commozione Giovanni Negri ne L’Illuminato, che è contemporaneamente una storia dei radicali nei giorni dei grandi referendum e della massima espansione del partito, un memoir a suo modo malinconico, un panegirico di Marco Giacinto Pannella ( « Giacinto » in onore d’uno zio prete) e una presa di distanza dagli ultimi avatar dell’antipartito pannelliano, frantumato in una miriade d’associazioni, tutte a far da corona al leader, trasformato in una sorta di Budda della misericordia. Diventato radicale giovanissimo, verso la metà degli anni Settanta, quando gli studenti liceali tifavano piuttosto per le Brigate Rosse e per gli autonomi, Negri era uno di quelli che marciarono impavidi sotto il fuoco nemico: le scomuniche dei clericali, i risolini affettati della destra laica, le legnate dei comunisti ufficiali, la superbia e le minacce di quelli invasati. Come Pannella, Negri era un liberale di sinistra e un « moderato intransigente » . Col tempo, come tutti i beniamini del Chronos radicale, sarebbe diventato anche lui uno dei « figli divorati » e, non condividendo la sterzata « transnazionale » e sempre più pannellocentrica del partito, avrebbe lasciato la politica per l’imprenditoria vinicola ( e per il romanzo poliziesco). Ma prima di passare ad altro, come prima o poi capita a tutti, Negri fu un radicale di rango, e dal 1984 al 1988 anche il segretario del partito. Era in trincea, dove Pannella guidava le sue truppe sbraitando più come un sergente maggiore che come un maestro zen, negli anni del divorzio e dell’aborto, dei sequestri e delle campagne garantiste per la « giustizia giusta » , del caso Moro e del caso Tortora. Nell’Italia del Terrore giustizialista, del lungo cinepanettone berlusconiano e oggi dell’indicibile, non c’è più stato spazio per i radicali. Pannella finì per trasformarsi nel grande Mahatma tabagista, i suoi seguaci storici ( Negri con loro) si dispersero e quanto alla libertà, che prima semplicemente « non faceva problema » , d’improvviso divenne un fastidio per i moralisti al potere e un ostacolo per i populisti all’arrembaggio.