And the winner is...un’altera e fredda Jackie
Al di là del pasticcio della busta sbagliata, fra Moonlight e La La Land, se fossi stato un giurato dell’Academy, avrei dato il mio voto a Jackie per l’intensa originalità con cui affronta un tema assai difficile. E dire che ero entrato in sala pieno di diffidenza, di solito non mi piacciono le biografie romanzanti e qui, fra il Presidente ammazzato, i complotti e gli amori segreti, c’era un ricco materiale. Ma a Larraín, cileno in stato di lucida allucinazione, interessano solo i giorni in cui l’ex First Lady “detronizzata” costruì su scala mondiale il suo lutto e pose le premesse al culto postumo di John Kennedy. Con una struttura alla Orson Welles ( Citizen Kane) il regista segue Natalie Portman (fredda, altera, bravissima) che, davanti a un giornalista in una intervista “controllata”, pone le premesse per il futuro suo e della Nazione. Brevi ma determinanti flash rievocano la tragedia di Dallas, la testa insanguinata di John che macchia il vestito della sposa. Come in Post Mortem, Larraín rappresenta la catastrofe con un’immagine funebre (lì era il corpo martoriato del presidente Allende), trascura i complotti e gli scandali, e punta sulla caduta delle illusioni e la consapevolezza della fine. Tutti sono antipatici (anche il fratello Bobby), ma l’importante è costruire una leggenda da trasmettere ai posteri. Il canto di Camelot è l’unico ricordo di una breve speranza di gloria.