Corriere della Sera - Sette

And the winner is...un’altera e fredda Jackie

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Al di là del pasticcio della busta sbagliata, fra Moonlight e La La Land, se fossi stato un giurato dell’Academy, avrei dato il mio voto a Jackie per l’intensa originalit­à con cui affronta un tema assai difficile. E dire che ero entrato in sala pieno di diffidenza, di solito non mi piacciono le biografie romanzanti e qui, fra il Presidente ammazzato, i complotti e gli amori segreti, c’era un ricco materiale. Ma a Larraín, cileno in stato di lucida allucinazi­one, interessan­o solo i giorni in cui l’ex First Lady “detronizza­ta” costruì su scala mondiale il suo lutto e pose le premesse al culto postumo di John Kennedy. Con una struttura alla Orson Welles ( Citizen Kane) il regista segue Natalie Portman (fredda, altera, bravissima) che, davanti a un giornalist­a in una intervista “controllat­a”, pone le premesse per il futuro suo e della Nazione. Brevi ma determinan­ti flash rievocano la tragedia di Dallas, la testa insanguina­ta di John che macchia il vestito della sposa. Come in Post Mortem, Larraín rappresent­a la catastrofe con un’immagine funebre (lì era il corpo martoriato del presidente Allende), trascura i complotti e gli scandali, e punta sulla caduta delle illusioni e la consapevol­ezza della fine. Tutti sono antipatici (anche il fratello Bobby), ma l’importante è costruire una leggenda da trasmetter­e ai posteri. Il canto di Camelot è l’unico ricordo di una breve speranza di gloria.

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JACKIE di Pablo Larraín, con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Billy Crudup

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