Ron
Il cantante, impegnato in un progetto benefico che ha messo assieme i big della musica italiana per un doppio album di duetti in favore dei malati di Sla, parla della nuova generazione di cantautori, dei limiti delle major discografiche e di un sogno....
Ci sono due argomenti che scaldano Ron. Uno è la musica. Aveva solo 16 anni quando debuttò sul palco di Sanremo nel 1970. « E pensare che fino a 20 giorni prima ero ancora a scuola » . L’altro è la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa che da anni lo vede impegnato a sostegno dell’Aisla per l’assistenza ai malati e la ricerca. Figuratevi come gli si accende la voce quindi, quando parla di La forza di dire sì, progetto benefico che ha messo assieme i big della canzone italiana per un doppio album di duetti sui suoi successi reinterpretati ( c’erano Jova, Mengoni, De Gregori e altri) e per un concerto che nei giorni scorsi a Milano ha radunato un cast con Pezzali, Renga, Nek, Berté, Zampaglione, Annalisa, Elodie, Pedrini, Syria, Barbarossa, Tosca e La Scelta. « Se sono rose fioriranno. Ora parto in tour e ho già chiesto a questi amici di venirmi a trovare nelle diverse date. Ho provato emozioni forti. Nel disco i duetti erano veri, non registrazioni a distanza. Sono venuti tutti nel mio studio e sono nate cose bellissime improvvisando. Il concerto ha avuto in più il calore del pubblico e quella forza unica data dalla presenza di molti malati di Sla » . Il dibattito sulle malattie degenerative, sul fine vita e sull’eutanasia è tornato nell’agenda politica dopo il caso di Dj Fabo, il 40enne tetraplegico e cieco a seguito di un incidente che ha scelto il suicidio assistito in Svizzera. Che ne pensa? « Per me l’esempio è quello di Marco Melazzini, un grande combattente e un amico. Mi ha confidato che 12 anni fa anche lui aveva prenotato una stanza in Svizzera. All’ultimo momento ha detto no, ha avuto un colpo spirituale, ha creduto, e ha deciso di continuare a vivere. Ma è anche vero che non puoi giudicare persone che decidono che la qualità della loro vita è disastrosa. Chi non ce la fa non ce la fa. Si può vivere con dignità la malattia, ma è sbagliato dire che chi va in Svizzera sbaglia. Va perdonato » .
Credere, perdonare… Il suo è un punto di vista laico o religioso?
« Sono cattolico ma so benissimo che se Cristo ne ha passate di ogni, per noi persone normali c’è un limite. E siccome la Sla è una malattia anche delle famiglie non me la sento nemmeno di puntare il dito contro quei figli o compagni che abbandonano una persona che si ammala. Ognuno di noi è fragile in un punto diverso » .
Il punto debole di Ron?
« Non accetto le ingiustizie e per questo ho deciso di salire sulla nave della Sla e lottare. Non è giusto che, sebbene la malattia interessi “solo” 6 mila persone, le istituzioni non si adoperino per fare di più e tutto sia lasciato ai volontari e alle famiglie » .
Con il Corriere nel 2005 pubblicò un album simile, Ma quando dici amore…
« Andò benissimo in edicola. Speriamo di ottenere gli stessi risultati con questo e con i concerti. Ma oggi convincere la gente a comprare un disco è più difficile che persuaderla a pagare le tasse » .
La musica è ovunque, ma nessuno paga. Cosa è successo?
« È un fatto molto italiano. La musica è di- vertimento, e lo insegno ai ragazzi delle mie scuole musicali, ma è anche un lavoro. Appena metti i piedi fuori dall’Italia ti rendi conto del valore che viene dato all’arte. Noi, con tutto il rispetto, abbiamo solo Sanremo. E non basta. E non bastano nemmeno Amici e X Factor. Non c’è nulla di serio per cui valga la pena dare un anno di vita per la musica » .
Reazione all’eliminazione a Sanremo dove presentava L’ottava meraviglia?
« No. Fin da ragazzino ho fatto concorsi. Stavolta ho sperimentato l’eliminazione. Ho sorriso e ho deciso di guardare avanti » .
C’è una nuova generazione di cantautori, i nomi sono quelli di Calcutta, Le luci della centrale elettrica, Thegiornalisti, Brunori…, che si affaccia.
« Vedo che si appoggiano alla zattera della Rete. Sanno che così sono liberi di fare. E per il prossimo disco potrei fare lo stesso io e affidarmi, come i ragazzi della band che mi accompagna, La Scelta, al crowdfunding, la raccolta di fondi pubblica. Le case
discografiche non ti lasciano più libero » .
In che senso?
« Cosa vuol dire che una canzone deve durare meno di 3 minuti e 20? O che non è radiofonica? Mi sembra che le major discografiche non sappiano più gestire il talento. Nemmeno quelli che escono dalla tv. Ce ne sono di bravi, ma gli affidano canzoni brutte. Così si buttano via le vite delle persone. Devi lasciare ai talenti la libertà di gestirsi. È accaduto, e parlo di generazioni diverse, con Dalla, De Gregori, me, Carboni, Bersani… Si faceva musica con felicità senza pensare al successo. Però i risultati arrivavano » .
Lei ha avuto un momento di blocco negli Anni 70…
« Erano gli anni di piombo. C’era un’atmosfera terribile. Lucio e Francesco dovettero cambiare auto e comprare un’utilitaria per evitare l’accusa di essere dei nemici del popolo. Nel 1973 vennero invitati al Palazzo dello sport di Roma per un concerto di protesta contro il colpo di Stato in Cile e mi chiesero di partecipare. Non scrivevo anco- ra testi così decisi di mettere in musica una poesia di Pablo Neruda, I morti della piazza. Quando salii sul palco i fischi mi ributtarono indietro: ero considerato commerciale, uno che veniva da Sanremo e dalla tv. In quegli anni anche Morandi fu costretto ad allontanarsi dalle scene » .
Aveva un piano b?
« Ennio Melis ( dirigente della Rca, considerato il papà dei cantautori, ndr) mi fece fare il presentatore di uno spettacolo con un Renato Zero agli esordi e altri musicisti. Mi notò un regista, Vittorio De Sisti che mi chiamò per una parte in Lezioni private. Poi lavorai con Montaldo e Nino Manfredi » .
E la musica?
« Suonavo chitarra e pianoforte per Lucio Dalla. La svolta arrivò nel 1979 con Lucio e Francesco De Gregori che mi affidarono gli arrangiamenti del tour Banana Republic. Quei concerti, con un biglietto a 1000 lire, segnarono il ritorno alla tranquillità nei concerti. Basta scontri » .
Se il cinema bussasse ancora alla sua porta in che ruolo si vedrebbe?
« Nel ruolo di un rivoluzionario. Uno che in un momento in cui tutti urlano, sia capace di ascoltare. E se devo sognare mi immagino Spielberg alla regia, è uno che sa raccontare una storia. Gli americani sono i più bravi in questo » .
Anche nella musica?
« Per certi versi sì. Sanno trasferire la tranquillità nella musica, da noi si sente quella tensione legata alla non libertà dell’artista che ormai è nelle mani di altre persone che gli dicono cosa e come deve fare » .
«Noi, con tutto il rispetto, abbiamo
solo Sanremo. E non basta. E non bastano neppure Amici e XFactor»