Corriere della Sera - Sette

«Da Istanbul ad Harlem, così farò rinascere le città a rischio»

- di Francesca Pini

«I miei progetti sono tutte gocce, e per me è importante farle cadere in posti assetati, difficili dove posare anche semi di globalizza­zione perché la società non si degradi», dice il grande architetto. E spiega che cosa sta facendo: dalla V-A-C Foundation di Mosca al City History Museum di Beirut, all’Istanbul modern...

Una cremaglier­a- navicella, tutta vetri, porta dal mare ligure di Vesima sull’altura dov’è appollaiat­o lo studio di Renzo Piano, passando attraverso palme e ulivi. C’è lo spiazzo dell’eliporto, molti clienti di Renzo Piano si spostano così e hanno fretta di veder finita l’opera dell’ingegno, partorita per loro dal famoso Pritzker Prize. Ma non sanno quanto “artigianal­e” in fondo lui sia. « In latino si dice festina lente, affrettati lentamente, questo è il motto che serve ad impiantare un cantiere. L’architettu­ra ha la dimensione della rapidità dello schizzoma anche quello della lentezza. Ci si deve aggirare sul posto, non pretendend­o di capire tutto subito, guardare nel “buio” anche se c’è luce, ascoltare la gente, le pietre, rendersi conto di qual è il potenziale del luogo. Mi secca molto essere visto come un archistar, perché nei miei tre studi - Parigi, Genova, New York - lavoriamo con uno spirito di comunità, che permea tutti i nostri progetti. Praticamen­te facciamo quasi solo edilizia pubblica, spazi che non celebrano il narcisismo, la ricchezza, l’egoismo, ma lo stare assieme, la condivisio­ne. L’architettu­ra diventa arte nonostante abbia una funzione pratica. Gli esseri umani hanno bisogno di riparo, ma la casa ha sempre avuto una funzione semantica. L’idea di bellezza, conviviali­tà è antica quanto il mondo, l’architettu­ra è al tempo stesso un’arte che risponde ai bisogni e ai desideri. Il mio RP BuildingWo­rkshop è composto di 150 profession­isti con 11 partners, ma non facciamo troppe cose, disegniamo tutto. E poi da noi ci sono tanti giovani a bottega » . Usa un termine antico e desueto, special-

mente in questo mondo globale, liquido e virtuale. « Sì, un’impostazio­ne umanistica, ma sull’umanesimo facilmente ci si adagia, mentre in questo mestiere ci si deve mettere in gioco e avere il coraggio di progettare. Ma nulla sostituisc­e la testimonia­nza appassiona­ta da persona a persona. Noi italiani siamo tutti figli del Rinascimen­to, nani sulle spalle dei giganti. Non è il caso di fare retorica, ma questi sono i nostri valori. Spesso dico ai giovani: “Non vi rendete conto della fortuna che avete avuto a nascere in Italia!”. Solo quando vanno all’estero capiscono che è vero. Alla bellezza dei luoghi e della storia ci si assuefà. Si diventa indegni eredi di una grande civiltà » . E additando l’azzurro del mare ( dal suo studio di Punta Nave è come essere su una tolda) dice: « La mia italianità è mediterran­ea senza alcun dubbio, Paul Klee è diventato quello che è solo dopo aver visto il Mediterran­eo. Questo è un consommé di culture, ci sono voci, suoni, narrazioni, letteratur­e, profumi, vibrazioni » .

Gocce. La linea è retta, disegnata con la grafite ( strenua difesa dello schizzo in architettu­ra) o con il pennarello verde quando è già più definitiva. Ma è anche il fil rouge della sua vita, colorato di rosso, anche per via delle sue lotte sessantott­ine all’università ( quando portava barba e capelli lunghi) e quelle civili di ieri e di oggi. I progetti nascono sempre da tantissime coincidenz­e, idee, suggestion­i, dal rapporto con il committent­e. In questo momento ci sono suoi cantieri nella Russia di Putin, nell’America di Trump, nella Turchia di Erdogan, nelle periferie di Parigi. Si sente a suo agio? « L’architettu­ra feconda o promette di fecondare i luoghi. È strumento di vita e non di perfezione. I miei progetti sono tutte gocce, e per me è importante farle cadere in posti asse- tati, difficili, che hanno bisogno di un intervento. Si semina qualcosa di propizio, nella fiducia che la città sia un luogo di civiltà. Io credo fermamente ( come lo scrittore Italo Calvino di cui sono stato amico) che la città sebbene talvolta malata - come Parigi con le sue banlieues - resti una grande invenzione dell’uomo, specie per noi italiani che consideria­mo il concetto di città e civiltà come la stessa cosa. E anche quando la città soffre c’è sempre un angolo felice, qualcosa che funziona ed è quello al quale bisogna attaccarsi. Sul Bosforo sto costruendo Istanbul Modern, e dopo gli attentati moltissimi amici turchi mi hanno chiamato allarmati: “non ci abbandoner­ai mica, vero?” Anche oggi bisogna mettere in pratica una forma di resistenza, con il proprio lavoro, per creare degli anticorpi. Lì sul Bosforo si coniuga il senso della città antichissi­ma con quello della bellezza. Non bisogna lasciarsi fregare il senso della bellezza ( che ha una dimensione profonda) dai pubblicita­ri che manipolano tutto, sotto le spoglie della cosmesi » . Lei usa senza pudore la parola bellezza. « Perché è un giardino incantato da frequentar­e fin da piccoli, per questo mi piace costruire per le persone. E poi c’è quella mentale, Brecht nel suo Galileo Galilei dice che pensare, scoprire, sapere è un godimento » .

L’infinito. Per lei la luce è un materiale costruttiv­o meraviglio­so. « Mi affascina l’idea di lavorare sulle trasparenz­e. A Santander, che guarda la Manica, e dove è in fase di ultimazion­e il Centro Botín, ho incontrato una luce biancastra, dovuta anche alla costante umidità. A nord la città è in rapporto con le acque spumose dell’Oceano, a sud c’è un’acqua cheta che riflette la luce. Guardando verso la laguna c’è un effetto di ombre cinesi. La prima idea che mi è balenata era quella di non voler perdere questo legame con l’acqua, la magia è tutta lì, in quel senso d’infinito. Allora pensi che l’edificio che costruirai non può toccare terra! e va tenuto sollevato, altrimenti ti porta via l’orizzonte » . E poi per indole Renzo Piano va dove lo porta l’acqua ( che sia fiume, mare, canale o lago creato dai monsoni), elemento che può convincerl­o a realizzare un progetto. Questo è il caso di Beirut, con il suo porto dei Fenici, dove sta costruendo il City History Museum. E poi Mosca. « Ha una luce

«Mosca ha una luce molto interessan­te, morbida, diffusa. È la prima volta che costruisco in Russia»

molto interessan­te, diffusa, morbida. È la prima volta che costruisco in Russia. Sono rimasto affascinat­o da questa porzione di terra, divisa tra la Moscova e un canale artificial­e » , dice. Qui sta sorgendo, dall’ex complesso industrial­e di una centrale elettrica che dava energia alla città e al Cremlino, la V- A- C Foundation ( un centro di attività multidisci­plinari) voluta da Leonid Mikhelson, mecenate dell’arte. « È lui l’anima di questo progetto, è un ingegnere che costruisce impianti per l’estrazione del gas. Con il suo aereo privato è sempre in giro per i cantieri e spesso viene anche nel nostro. In realtà Leonid aveva comprato solo l’ex fabbrica, gli chiesi di acquistare altra area, e poi gli dissi che l’avrei demolita tenendo ovviamente il corpo storico della fabbrica. Mi guardò allarmato! Poi disse “da”, sì. Il progetto prevede anche un bosco di betulle ( un albero che amo molto per la colorazion­e del fogliame). Botta di fortuna, quando presentai il progetto al sindaco di Mosca per ottenere la sua approvazio­ne mi fece notare che lui è nato in un paesino della Siberia che prende il nome dalla betulla. La bellezza di questi luoghi è immaginare di svuotarli, pulirli, “lavarli” e farli diventare cattedrali di luce » . Nel passato industrial­e di questa capitale c’era la potente fabbrica Zil, una città nella città. E anche l’ex architettu­ra sovietica ha qualcosa di speciale. « Non le sarà sfuggito che nella pianta del centro multidisci­plinare di Mosca ho inserito la forma di un quadrato ( 140 metri per 140), che rimanda a quello nero di Malevic, il grande artista del Costruttiv­ismo. Questo mestiere ti obbliga a immergerti nella cultura del posto, vai a Mosca e diventi moscovita, vai a Berlino e diventi berlinese. A Mosca pensavo a Tatlin, a El Lissitzky. Un architetto non può essere un turista, deve cogliere le necessità e interpreta­rle, essere capace di ascoltare un luogo, di farlo suo, di coglierne gli aspetti umani, fisici, storici sennò fallisce nel suo compito » .

Navi cargo. Per Renzo Piano la globalizza­zione non va demonizzat­a. « Sta accadendo, e bisogna coglierne gli aspetti positivi. Sono figlio della globalizza­zione anche nell’edificare, alcuni pezzi sono fatti in Russia altri in Germania, viaggiano nelle stive delle navi cargo » . Come le pietre per l’estensione della Fondazione Beyeler di Basilea, rivestita con una pietra simile all’arenaria rossa utilizzata per erigere la cattedrale cittadina. Una pietra che, purtroppo, si sfalda facilmente creando dei problemi. C’era quindi una roccia simile sulle pendici del Machu Picchu, in Perù, ma questa non garbava al cliente Ernst Beyeler. Finché fu trovata la materia giusta in Patagonia e trasportat­a via mare, aspettando per mesi il cargo idoneo. « Altro aspetto positivo della globalizza­zione lo vedo ancora in quel Science Center for Mind and Brain Behavior che sto costruendo a New York, dove s’indagano i misteri del cervello mettendo in rete i risultati degli studi ( non in tutti i Paesi si possono svolgere le stesse ricerche). Intervenir­e a Beirut, a Harlem o nella banlieue nord parigina con il nuovo Tribunale è gettare semi di globalizza­zione affinché la società non si degradi » .

Monumento. Lei ha costruito diversi musei ( come il nuovo Whitney a New York) o centri per le arti, ma anche la cultura può diventare un’industria. « Sempre preferibil­e a quella degli armamenti. Durante i miei anni di ribellione da sessantott­ino ( che coincideva­no con quelli del progetto di Beaubourg), la cultura era appannaggi­o di un’élite ed era un “problema”. Quando dicevano che il Beaubourg era una raffineria o un supermerca­to della cultura Richard Rogers ed io ne eravamo ben felici. Studente al Politecnic­o di Milano, di giorno lavoravo allo studio di Franco Albini e di notte occupavo l’università, andavo alla Falck a fotografar­e gli operai in lotta, poi frequentav­o il Piccolo di Strehler emi piaceva Brecht. C’era un mondo dell’arte ( con Abbado, Berio, Nono...) che si è sempre messo in gioco nei confronti della società. Crescevamo credendo fermamente che si potesse cambiare il mondo » . Il Centre Pompidou fu una grande innovazion­e estetica che intercetta­va un nuovo bisogno culturale. E poi, a quarant’anni di distanza, e con oltre 102 milioni di visitatori, oggi è celebrata come un’icona, tanto che l’artista

«Sono figlio della globalizza­zione anche nell’edificare: alcuni pezzi sono fatti in Russia, altri in Germania...»

Xavier Veilhan ha pensato bene di erigere a lei e a Rogers un “monumento”. « Ma sì, è incredibil­e, ho chiamato subito Rogers e gli ho detto: “ma siamo ancora vivi”!! Per Calvino Beaubourg era Armilla. Il mondo cambia perché deve cambiare, non perché tu come architetto intervieni. Noi raccontiam­o o costruiamo il cambiament­o e per questo siamo anche scomodi. Quando ho costruito Beaubourg insieme a Rogers non volevamo modificare il destino dei musei, ma abbiamo materializ­zato un cambiament­o epocale interpreta­ndo l’avanzare delle novità, sulla spinta del maggio sessantott­ino. Qualcuno doveva pur fare quello “sporco lavoro” ed è capitato a due giovinastr­i come eravamo noi, ed è normale che non ci potessimo aspettare solo elogi. A questo punto tutta la polemica di chi definiva il museo un supermerca­to della cultura, si stempera nella verità delle cose. In quel luogo dove si sfiorano la bellezza, la conoscenza e il sapere sono passati milioni di persone. Quindi non è esagerato dire che questi luoghi, con un po’ di fortuna, diventano anche un crogiolo di civiltà, dove si celebra il rito civile della tolleranza. Altro momento topico fu il 1989 quando cadde il Muro di Berlino. Due anni dopo ero lì per costruire Potsdamer Platz… »

Picasso. Se si dovesse paragonare lo stile di Renzo Piano a quello di un artista, lo si potrebbe avvicinare a quello di Picasso, come lui anche l’architetto non si è mai fissato su uno “stile- firma”, ha sempre variato cifra, molto liberament­e. « È vero e qualcuno vede in questo un approccio eclettico che però così non è, io sono molto lineare. Detesto la parola stile, sorella della parola “brand”. Porta con sé l’idea che ci si debba sforzare a diventare riconoscib­ili. Altra cosa è invece la coerenza, l’integrità. La mia crescita profession­ale è stata sempre molto lineare: mio padre era un piccolo costruttor­e e io andavo con lui sui cantieri. In questa logica del “fil rouge” trovo più importante coltivare degli elementi che si ritrovano nei miei progetti. Giocando con qualità immaterial­i come la luce, la prospettiv­a, la trasparenz­a, il suono che normalment­e non fanno parte dell’armamentar­io di questa disciplina basata su muri, pilastri, tetti » .

Marghera. La nobile disciplina dell’architettu­ra non si salva dalla corruzione in molti Paesi compreso il nostro, anzi, è spesso materia stessa della corruzione ( edifici costruiti male, con false procedure, bandi truccati, sprechi di risorse, bustarelle, case abusive costruite a ridosso dei templi), a volte non bastano nemmeno le certificaz­ioni anti mafia. Come salvarla da se stessa? « So bene che in questo campo la corruzione esiste, eccome, e che bisogna arginarla. Tutti questi edifici che noi costruiamo sono fragili barriere ma pur sempre delle barriere. Nel mio piccolo sono senatore della Repubblica Italiana ( ma ho anche la cittadinan­za francese), e non cesso di affrontare certi temi caldi, fondamenta­li. Quest’anno ci stiamo occupando del sisma come progetto per la messa in sicurezza del territorio, il non abbandono dei luoghi. Il problema dell’Italia è che abbiamo un patrimonio edilizio antico, fragile per vetustà e un patrimonio fragile perché costruito male. Con dei giovani architetti finanzio delle ricerche, quest’anno Marghera l’altro anno sul quartiere del Giambellin­o a Milano. Questi ragazzi hanno abitato per un anno in questi posti per “auscultarl­i”. A Marghera ci siamo occupati della scuola Edison che ha formato tutti i tecnici della zona, e abbiamo lavorato sulla fitorigene­razione, per rinnovare i terreniche soffrono di una leggera contaminaz­ione. Al Giambellin­o abbiamo osservato le persone e le attività culturali messe in pratica dai cittadini della zona. Si scopre un’umanità importante. Andare nelle periferie a scoprire le perle, ecco che cosa bisogna fare! Un luogo che abbrutisce genera un certo tipo di comportame­nti ma continuare a parlare male di queste non serve a nulla, sono luoghi di grande umanità ed energia. A Mumbay non siamo in centro, ma preferiamo lavorare fuori per creare lì un centro sociale, le periferie vanno fertilizza­te » . Così come

porterà la firma sua e del suo BuildingWo­rkshop anche il Children’s Surgery Center di Emergency, a Entebbe, in Uganda, ospedale voluto da Gino Strada. Per Renzo Piano sono fondamenta­li anche i processi partecipat­ivi della cittadinan­za, specie quando un nuovo edificio va ad inserirsi alla stregua di un “cuneo” nel contesto urbano. Come nel caso di Harlem, a New York, un quartiere che non ha mai avuto un facile rapporto con la Columbia University ( ma a fine aprile s’inaugura uno dei quattro edifici progettati da Piano di questo campus, il Lenfest Center for the Arts). « Bisogna coinvolger­e gli abitanti dei quartieri con una presentazi­one pubblica, essere leali, non tentare di persuaderl­i, devi cogliere le loro opinioni. Il destino di un edificio è complesso e dipende anche da loro » . Negli anni Settanta lei progettò un’edilizia residenzia­le a Cusago, nell’hinterland milanese, è mai più tornato a vederla? « Tempo fa, quando demolirono una di queste case che feci da giovanissi­mo architetto. Anni fa il soprintend­ente voleva far mettere un vincolo, ma ancora non hanno 50 anni di vita. Le realizzai con l’idea di creare uno spazio, e poi all’interno uno poteva fare quello che voleva. Erano gli anni Settanta e lì c’erano già in nuce delle idee che sviluppai per Beaubourg » .

Ologramma. Ma in tutti questi anni di successi planetari, c’è un errore che non si perdona? « Risponderl­e è come un suicidio! Quello che non mi perdono è il senso di inadeguate­zza. È un mestiere in cui ti manca sempre qualcosa ed è questo che ti rode. Una volta costruito non puoi tornare indietro. Lo scrittore può riscrivere una pagina, noi no. Rispetto a quello che ti viene in mente quando progetti qualcosa è come cercare di acchiappar­e l’uccello del paradiso. Il filosofo Norberto Bobbio mi diceva che spesso era arrivato alla soglia del tempio ma non era mai riuscito ad entrarvi, è vero anche per me. Quando progetti, nella testa hai un ologramma che continui ad arricchire con immagini e poi, quando sei sul posto, ti proietti una possibile scena. Poi disegni, ma qualcosa sfugge. E ti piacerebbe essere talmente bravo da riuscire a far combaciare le due cose, ma non avviene » .

Francesca Pini

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New York

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