Corriere della Sera - Sette

Welcome to Trumpistan!

L’amore (circondato dai kalashniko­v) tra Azad e Lina. Il colonnello che insegue il Califfo con il Rolex al polso. E le case: copie esatte della residenza del Presidente americano. Anche così è la vita, nel Kurdistan iracheno

- MA S DI R TA ERAFINI E G FOTO DI UGENIO ROSSO

«EHI, VUOI VIVERE ALLA CASA BIANCA?». Daraa mi guarda e ride mentre la polvere gli ricopre i mocassini finto Ferragamo. «Bastano poco più di 600 mila euro e la copia perfetta del 1600 di Pennsylvan­ia Avenue è tua». Grattaciel­i, ville, centri commercial­i. Welcome to Dream City, il quartiere nuovo della capitale del Kurdistan iracheno. A Erbil negli ultimi quattro anni dalla Turchia sono piovuti miliardi di dollari in investimen­ti. I muratori hanno fatto i salti mortali per finire tutto a tempo di record. Stucchi dorati, marmi italiani, affreschi neoclassic­i. «Manca solo il mare e poi

sarebbe perfetto», dice serio l’agente di Real Estate. La guerra all’Isis in fondo sembrava un buon affare. Poi, però, quando Trump ha vinto le elezioni, a Erbil non hanno detto niente, hanno solo sorriso. «The Donald finirà per prendersi tutti i soldi del petrolio», è il mantra. Così quelle case sono rimaste vuote, con la plastica ancora attaccata ai corrimani delle scale. La guerra e l’amore, forse. Azad e Lina si piacciono. Si sono conosciuti alla rosticceri­a all’angolo sulla Sky Road e l’Ankawa Road, dove vendono il pollo arrosto più buono della città. Lei era in jeans e maglietta aderente. Azad aveva tanto gel nel capelli. Azad e Lina stasera ballano stretti in un locale sull’Ankawa Bypass Road. Hanno fumato un po’ di shisha insieme e poi si sono baciati pensando che nessuno li vedesse. Della guerra non vogliono sapere troppo, con i kalashniko­v ci sono nati. Pensavano di vivere nella Svizzera dell’Iraq, mentre guardavano le telenovela sottotitol­ate in curdo; ora Azad e Lina sperano che passi in fretta la crisi. «Magari un giorno mi sposi». «Magari no». All’alba il sole fa diventare rosa le colline. Da Erbil a Mosul Ovest sono tre ore di auto. Bisogna passare i checkpoint dei

peshmerga. A ogni posto di blocco, il ritratto del presidente Barzani. Ultimo controllo documenti e si entra in Iraq. Gli

humvee della Golden Division irachena sono incolonnat­i sulla strada, i pastori spingono le pecore verso il Tigri. Da quando è iniziata l’offensiva, la parte orientale della città è stata ripresa. Isis tiene ancora la città vecchia a Ovest. Quattrocen­tomila civili in trappola senza acqua e

cibo, mentre in Europa le aperture dei giornali sono tutte occupate dagli attentati e dalle foto di Melania e Ivanka Trump. «Siamo vicinissim­i», ci spiega il colonnello Abdullah Id Sahid della 31esima divisione. I baffi curati, la divisa inamidata, se ne sta seduto su una sedia di plastica rossa, men- tre i suoi uomini litigano studiando le mappe. «Vicinissim­i» significa a una decina di chilometri dal Gobbo, il minareto di Al Nuri, la moschea dove Al Baghdadi si è autoprocla­mato Califfo con il Rolex al polso.

I SOLDATI AMERICANI delle special forces mangiano il rancio nei vassoi di plastica. Gli iracheni pregano al sole. Pochi metri più in là, un cane zoppo gira intorno al cadavere di un foreign fighter morto. Lo lasciano lì a faccia in giù vicino a un’automobile distrutta. «Ma non vi dà fastidio la puzza?», chiedo a un soldato. Lui mi fa cenno e sogghigna, mentre un fotografo olandese si fionda a fotografar­e il corpo. «Lo

abbiamo lasciato per voi». Zena, 26 anni, sta seduta con gli occhi bassi a fianco dell’autista dell’unità medica mobile di Intersos, una delle Ong italiane che lavorano sul campo. La strada verso Qayyarah, dove Isis ha incendiato i pozzi di petrolio prima di ritirarsi, è lunga, chiacchier­iamo un po’. Zena è musulmana, viene da Mosul Est. Sua madre faceva la dottoressa all’ospedale pubblico. Lei ha studiato medicina all’Università della città, una delle migliori del Medio Oriente. È specializz­ata in ginecologi­a. «Quando l’Isis ha preso il controllo del nostro quartiere, siamo scappate», mi dice mentre si sistema l’hijab. A Zena non piace vivere a Erbil. «Le ragazze passano

il tempo a farsi il botox nei saloni di bellezza e si truccano pesante». Lei invece aiuta le donne dei villaggi, le ascolta. «Ora ti devo lasciare», mi dice. Poi tira le tendine marroni dell’unità mobile e inizia le visite. Al tramonto i soldati vanno a farsi il bagno turco e i

fanghi di Hammam al-Alil. A pochi metri da qui, i miliziani hanno riempito una fossa con trecento cadaveri che stanno ancora lì con le teste tagliate in attesa che qualcuno li tiri fuori. Finché c’era Isis, l’hammam era chiuso: «Daesh diceva che era peccato», racconta Mohammed della polizia irachena prima di togliersi la divisa. Solo gli uomini possono entrare nel bagno. Ma fuori, nelle pozze del Tigri, i ragazzini scavano per trovare il fango, lo mettono nelle bottigliet­te di plastica raccolte in mezzo ai rifiuti e lo rivendono per 500 dinari, poco meno di cinquanta centesimi. Poi se non fa troppo freddo si fanno un tuffo nell’acqua sulfurea. «Passiamo settimane intere chiusi in ufficio», sbuffa Giovanni. Mentre l’avanzata su Mosul procede a rilento, gli expat delle organizzaz­ioni non governativ­e lavorano notte e giorno ai loro laptop per scrivere i progetti per la ricostruzi­one. La sera, quando non c’è qualche festa, bevono birra al Teacher’s Club ad Ankawa, il quartiere cristiano dove stanno gli occidental­i. La luce è bassa, i tavoli sono coperti dalle pesanti tovaglie bordeaux. Un cameriere si lamenta appoggiato al muro scrostato: «Stiamo aiutando gli arabi che scappano da Daesh ma dobbiamo pensare anche al nostro popolo». Rispetto a due anni fa gli hanno dimezzato lo stipendio e le ore di lavoro. All’inizio dell’offensiva contro Isis, in ottobre, è stato raggiunto un patto. Le forze speciali di Baghdad e le milizie sciite combattono per prendere Mosul, i curdi tengono le posizioni sul

confine tra l’Iraq e la loro regione autonoma e si accollano la

parte più difficile, accogliere gli sfollati. Ma un patto in guerra è fatto per essere rotto. Arabi, sunniti, sciiti. Curdi, cristiani. Finita una guerra, ne inizierà un’altra.

BRINGING IT ALL BACK HOME, riportando tutto a casa, era il titolo di un album di Bob Dylan. Il Kurdistan, l’Iraq. Erbil, Mosul, l’Isis. «Torni presto a trovarci», mi dice il guardiano dell’ospedale di Emergency. Mi mette in mano un mazzetto di fiori piccoli, bianchi e gialli, tenuti insieme con lo spago. Sono i nergiz, i fiori simbolo del Newroz, il capodanno curdo. Ho letto da qualche parte che stanno scomparend­o per colpa dell’inquinamen­to. Li prendo, li stringo per un secondo. Vista da lontano la guerra è solo bombe, torture, sangue. Qui è un mazzo di fiori dimenticat­o sul sedile di un taxi.

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 ??  ?? Nella foto grande, una strada deserta di Mosul Ovest, zona appena liberata; qui sotto: due giovani in un night club di Erbil e tre amiche al Book Café di Dream City
Nella foto grande, una strada deserta di Mosul Ovest, zona appena liberata; qui sotto: due giovani in un night club di Erbil e tre amiche al Book Café di Dream City
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 ??  ?? THE DONALD SI TROVEREBBE A CASA Dream City (Erbil), Kurdistan iracheno, copia della White House
THE DONALD SI TROVEREBBE A CASA Dream City (Erbil), Kurdistan iracheno, copia della White House
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 ??  ?? Qui sopra, alcuni soldati al bagno turco di Hammam Al-Alil; a sinistra: allenament­i nella Hawler Taekwondo School di Erbil e, sotto, Zena, giovane medico della Ong Intersos
Qui sopra, alcuni soldati al bagno turco di Hammam Al-Alil; a sinistra: allenament­i nella Hawler Taekwondo School di Erbil e, sotto, Zena, giovane medico della Ong Intersos
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