l' Avana è fatta di spuma
Non avevo nessuna voglia di andare a Cuba. Poi, appena arrivato, ho capito. Stavo per iniziare un viaggio nel tempo. Nel Novecento, nell'ideologia, nell'approssimazione
L'Avana, l uminosa, ombra che diventa giardino veglia i nfinita riparo per l 'alba. Pulsi i n modo unico, unica comprensione, seguendo i l ritmo, aria f resca, acquerelli l e tue f i nestre. Giraldilla (*), annuncio, mistero, voce casta i n quieta premura. Consacro l e tue vetrate, accarezzo i capitelli barocchi, polverosi, scoloriti. Vorrei parlare: gioco, arcobaleno, amore, persone, rumore, automobili; scritte su sapori. Jorge Enrique González Pacheco, Habana ( Bajo la luz de mi sangre, 2009) (*) Statua di bronzo, simbolo della città
«Cuba è una nazione analogica. Non soltanto perché internet viene centellinato. È analogica perché ama cose sensuali: musica dal vivo, sole, alcol, cibo approssimativo»
NON AVEVO VOGLIA di andare a Cuba. Proprio nessuna. Temevo di trovarci canadesi in ciabatte, tedeschi in esplorazione e italiani in caccia di ragazze giovani e/o sogni rivoluzionari di gioventù: gente da evitare, per motivi diversi, almeno in vacanza. Ci sono andato con mia moglie Ortensia e tre coppie di amici, in febbraio. Nessuno di noi era mai stato a Cuba. Ma almeno gli altri sette erano di buon umore. Io no. La mattina della partenza avevo la sensazione che anche le modelle sui cartelloni pubblicitari, a Malpensa, evitassero il mio sguardo; e le capivo. Dopo otto ore di volo spartano, siamo arrivati all'Avana. La casa particular, nel quartiere Vedado, era effettivamente particolare: una fantasia architettonica anni Quaranta, piena di specchi, con vista sulle tubazioni delle abitazioni vicine; ma i gestori erano premurosi e ci hanno subito piazzato in mano un Cuba li
bre; a me due, vista la faccia. Poi siamo usciti sul lungomare del Malecón e c'era brutto tempo e faceva freddo e le onde sbattevano sulle vecchie auto americane e la luce era quella di queste fotografie. Allora ho capito che, forse, Cuba non mi dispiaceva. E avevo fatto bene a venire. L'ho scritto, al ritorno, sul Corriere. L'Avana è uno specchio magico, ognuno ci vede dentro quello che vuole. 170 km a nord c'è Key West, Florida, ma la distanza è molto superiore. La distanza è atlantica, la memoria più vicina e nessuna fotografia ci basterà (citazione, grazie Ivano). Nel mare davanti al Malecón corre, misterioso, il confine tra Stati Uniti d'America e America Latina. E la prima sta risalendo. Vedrete, datele tempo. Mi è sembrato, volando all'Avana, di accettare un passaggio e rientrare nel Novecento. È novecentesca l'evidenza del passato prossimo. Quasi dovunque, in Europa e negli Usa, è un passato sbiadito, complice la rivoluzione digitale. Ma Cuba è una nazione analogica. Non soltanto perché internet viene centellinato, tramite costose carte prepagate. È analogica perché ama cose sensuali: musica dal vivo, sole, alcol, cibo approssimativo, nudità entusiastiche. È novecentesca perché, come in tutte le società isolate, il tempo è trascorso lentamente. Entrare all'Hotel Nacional è come passeggiare in un film in bianco e nero, tra i fantasmi di Frank Sinatra e Lucky Luciano. Cercare una connessione wi-fi all'Hotel Capri vuol dire tornare indietro degli anni. Costruito nel 1957 con i soldi della mafia americana, apparso nel film
Il nostro agente a L'Avana, fu di proprietà del gangster Santo Trafficante - Santo Trafficante! ogni malavitoso dopo di lui ha dovuto accontentarsi di nomi di ripiego - che usava l'attore americano George Raft come copertura.
L'AVANA È NOVECENTESCA anche per la passione incrollabile con cui, almeno ufficialmente, ricorda i suoi miti. Nel Museo della Rivoluzione è in mostra Granma, il piccolo yacht da diporto con cui Fidel Castro, Ernesto "Che" Guevara e ottanta compagni partirono dal Messico il 25 novembre 1956. Leggo sulla guida Lonely Planet – il distintivo del turista a Cuba, com'era la guida verde del TCI nell'Italia anni 80 – che i rivoluzionari vomitarono l'anima, durante sette giorni di mare mosso (credevano fossero tre, non avevano calcolato bene le distanze). E lo sbarco a Playa Las Coloradas, nell'oriente cubano, il 2 dicembre, fu disastroso. «Non fu uno sbarco: fu un naufragio», commenterà Che Guevara. Ritrovo i due – Fidel il cubano e Che l'argentino, con le loro barbe d'ordinanza – dentro un tiro a segno improvvisato in un cortile, dentro un palazzo a Habana
«Gli italiani residenti sono allegri fuggiaschi. Guidano vecchie auto, aprono ristoranti con un prestanome locale, stanno con la figlia e sposano la suocera»
Vieja, uno di quelli non ancora ristrutturati o ridipinti. Per due monete, invitano a colpire i "simboli dell'imperialismo americano": lattine di Coca-Cola e Sprite, sostanzialmente. Prendo il fucile e scopro di non sbagliare un colpo. I miei amici italiani sospettano qualche trucco, i ragazzini cubani mi festeggiano e io penso che tutto è lievemente assurdo, e ho fatto bene a venire a L'Avana. I PAESI COMUNISTI IN LIQUIDAZIONE li ho conosciuti quasi tutti: Cuba è tra gli ultimi della lista, e va visto, prima che diventi il parco-divertimenti degli Usa. Questa, bisogna dire, è una liquidazione lenta e colorata, un ballo intorno alla storia e sotto il naso di Donald Trump. Cuba è l’isola della disorganizzione sorridente, dove l’orario d’arrivo di un volo interno – aerei Antonov, detti "le bari volanti" – è un’opinione. Se l’Italia è la scuola dell’arte d’arrangiarsi, Cuba è il corso di dottorato: un dipendente statale guadagna l’equivalente di 40 euro al mese, tutti integrano in qualche modo, traffi-
cando con il peso convertible. Gli italiani residenti sono allegri fuggiaschi. Guidano vecchie automobili, aprono ristoranti con un prestanome locale, stanno con la figlia e sposano la suocera. Uno di loro mi riconosce davanti all'Hotel Inglaterra, l'albergo preferito di José Martí, grida il mio nome e offre un giro sulla sua Cadillac gialla del 1957. È simpatico. Porta un cappello da gringo, un'abbronzatura di caucciù e due orecchini. Dice d'essere stato un pilota dell'Alitalia. Visto come sta andando l'Alitalia, gli credo. L'Avana è un incrocio fra Chicago anni 40, Cracovia anni 80 e Castelvolturno com’è. Se avessero cercato di edificare il comunismo sul litorale domiziano, sarebbe uscito così. Le case sono un mix di vecchio cadente e nuovo irridente. Le strade offrono segnaletica approssimativa e voragini fantasiose. Uno arriva e si chiede: quando durerà tutto questo? Non molto, presumibilmente. Un motivo in più per venire e guardare: la spuma che sale dal mare, l'intonaco che cade dai palazzi, il tempo che scende su tutti noi.