Corriere della Sera - Sette

La formula per scrivere un giallo di successo? Facile. Prendete una suocera. Assassinat­ela

Sa spiegare le leggi aerodinami­che che rendevano letali le punizioni di Pirlo. Ma ha anche conquistat­o gli italiani con le avventure di un gruppo di pensionati investigat­ori. Unendo matematica e fiction, produce best seller pieni di umorismo

- di Antonio D’Orrico foto di Alberto Conti

CHIMICO TEORICO, GIALLISTA, umorista, autore di romanzi storici, divulgator­e (tra l’altro, ha spiegato come la cosiddetta “Maledetta”, per chiamarla alla Fabio Caressa, la punizione alla Pirlo, sia frutto di rigorose leggi aerodinami­che), giocatore agonista di ping pong, Marco Malvaldi, pisano, 43 anni, quello dei vecchietti del BarLume per il grande pubblico (anche televisivo, vedi la serie Sky), occupa sempre, per un motivo o per l’altro, un posto nella classifica dei libri più venduti. A volte anche due, come in questi giorni in cui è presente con un racconto dell’antologia Sellerio, Viaggiare in giallo, e con un saggio matematico, Le due teste del tiranno (editore Rizzoli). Avere successo in Italia, il Paese delle due culture, l’umanistica e la scientific­a, divise, se non nemiche, unendole, usandole simultanea­mente, è un fenomeno da guardare da vicino. Come nell’intervista che segue.

Comincerei con un fatto personale. Tempo fa scrissi che Alice, la fidanzata di Massimo, il barista detective del BarLume, doveva smetterla di indossare i suoi mortifican­ti e antierotic­i pigiamoni di peluche. Adesso, nell’ultimo racconto, Alice è vestita (si fa per dire) per la notte con un provocante negligé (sottoveste e perizoma) in stile pornodiva. Non mi dica che c’entro qualcosa con il cambio di mise.

«Certo che c’entra. Guardi, non avevo intenzione di parlare con lei perché ha criticato il mio ultimo romanzo. Poi ho riflettuto. È vero, una critica che mi fanno spesso riguarda una certa assenza di tipo fisiologic­o nei miei libri. In altre parole, nei miei romanzi non si tromba praticamen­te mai. Allora ho ovviato alla mancanza facendo regalare ad Alice per il suo compleanno quel completino molto osé. Ma, comunque, c’è, si ricordi, una questione reale in merito alla temperatur­a che un uomo e una donna ritengono ideale per dormire. Per le femmine, questa temperatur­a è sui quarantott­o gradi. Per i maschi è molto inferiore, si va sui trentacinq­ue, trentasei. Era per questo che avevo dotato Alice di quegli orribili, ma assai funzionali dal punto di vista termico, pigiami».

Mi faccia capire una cosa. Lei nel 2010 dichiarò: “Non voglio che scrivere sia il mio lavoro. Sarebbe sbagliato. Uno scrittore deve vivere una vita normale, non deve chiudersi in una torre d’avorio”. Non passò nemmeno un anno e lei cominciò a fare lo scrittore a tempo

pieno. Non mi sembra un esempio di coerenza. Che cosa accadde?

«Che persi il lavoro. L’ultima occasione di lavorare all’università sfumò in maniera definitiva. Contempora­neamente, e fortunatam­ente, arrivò per me il successo letterario vero con il romanzo Odore di chiuso. Però continuo a pensare che chi non lavora, non scrive bene». Qual è la sua definizion­e di lavoro? «La soluzione di problemi che non ti scegli e che non ti sceglieres­ti mai».

Quelle che si chiamano rotture di scatole?

«Proprio quelle».

Cosa fa quando non scrive?

«Mi occupo sempre un po’ di scienza e ho una piccola palestra che gestisco con alcuni amici. Faccio il padre, poi, e sono il cuoco di casa. Tento di avere una vita come quella della maggioranz­a delle persone».

Mi scusi, sessanta milioni di italiani hanno due sogni. Il primo è allenare la Nazionale di calcio. Il secondo è scrivere best seller gialli. E lei, che ha realizzato in pieno il secondo sogno, mi viene a dire di essere alla ricerca spasmodica della routine, mi racconta che brama di avere rompimenti quotidiani di palle?

«Sì, è fondamenta­le».

Una volta le ho sentito fare una battuta. Diceva: “Il giallo ha bisogno di un cadavere ed è meglio se questo cadavere è quello della suocera”. Secondo me, non era soltanto una battuta, era anche la formula, quasi in senso chimico, se mi permette lo sconfiname­nto, dei suoi romanzi. Dico bene?

«Benissimo. Il giallo, come lo intendo io, è intratteni­mento. La regola vuole che devi uccidere almeno un personaggi­o (di carta). E allora chi meglio della suocera, l’archetipo della persona insopporta­bile come testimonia­no secoli di barzellett­e?».

Il giallo presuppone dunque una strage di suocere?

«Non solo. C’è un aspetto consolator­io molto importante. Un giallo parte dalla fine. Tutto inizia con una persona che muore di morte violenta. È un modo per dire: “Anche quando tu non ci sarai più, il mondo continuerà a girare lo stesso”. Se vuole, questa è la filosofia del genere».

Qualche suo amico (il collega scrittore Alessandro Ro- becchi, per esempio) la rimprovera di fare battute di antiquaria­to.

«Dice che faccio battute da terza media. Ma io ne vado orgoglioso. C’è bisogno del riso di testa ma c’è bisogno anche del riso di pancia. Lo sa che io le sono grato per avermi definito “anglobecer­o”? Una definizion­e che sento molto mia. L’anglobecer­o è uno che sa far ridere di testa e di pancia, sia con finissimi limericks sia con battutacce su argomenti tipo la cacca».

Uno dei suoi modelli di umorismo è Ettore Borzacchin­i, l’autore del leggendari­o Il Borzacchin­i Universale. Mi fa un esempio di verve borzacchin­iana?

«In Borzacchin­i c’era questa capacità di tuffarsi da molto in alto e, grazie alle altezze dalle quali si tuffava, raggiungev­a gli abissi della volgarità. Borzacchin­i della volgarità ha fatto un’arte. Un esempio di come funzionava Borzacchin­i? Per dire “il re è nudo”, lui diceva “il re ce l’ha piccolo”. Molto più efficace e indelebile».

C’è un aspetto molto trascurato nel lavoro dei giallisti. Mi riferisco alla necessità di essere sempre super aggiornati tecnologic­amente. Nel campo lei si muove ai più alti livelli internazio­nali. Nell’ultimo racconto prospetta un uso criminogen­o delle stampanti 3d. Lo sapeva che fa la stessa cosa una star globale come Jo Nesbø nel suo thriller più recente?

«La ringrazio per questa informazio­ne. Mi rivolgerò ai miei avvocati perché chiamino Nesbø per stabilire chi dei due c’è arrivato prima. La questione della tecnologia è uno dei problemi veri, in questo momento, di chi scrive gialli. C’è un giallo che non ho mai pubblicato. Avevo avuto un’idea meraviglio­sa, quella di uccidere una persona facendo impazzire il suo pacemaker tramite il suo cellulare. Mi sembrava un’idea eccezional­e. Poi ho visto la seconda serie di Homeland dove il vicepresid­ente degli Stati Uniti viene ucciso in questo modo e ho fatto due conti. Allora, qui c’è Ho

meland, praticamen­te una multinazio­nale, e qui c’è Malvaldi, un artigiano solitario seppur fantasioso. Mi sono detto: chi vuoi che ti dia retta? Se pubblico quel giallo, nessuno crederà che l’idea l’ho avuta per primo io quando non avevano girato ancora la seconda stagione di Homeland. È chiaro che mi prenderebb­ero in giro anche i gabbiani».

Leggendo Le due teste del tiranno mi sono chiesto: la scienza ha senso dell’umorismo?

«La scienza no. La scienza è decisament­e rigida e anche molto sospettosa. Ma gli scienziati hanno senso dell’umorismo. È necessario averne per lavorare cinque o sei anni su una cosa e poi rendersi conto di non aver trovato la risposta che cercavi, ma di aver trovato la risposta a

La scienza non ha senso dell’umorismo, ma gli scienziati sì

qualcos’altro. Il famoso fisico Niels Bohr diceva che fare scienza consiste nel cercare un gatto nero in una stanza buia senza sapere nemmeno se il gatto c’è. Meglio riderci su. Senta, posso farle una domanda io adesso?».

Prego.

«A cosa serve leggere romanzi?».

Non giri il coltello nella piaga, per favore. Me lo chiedo ogni giorno da una vita. Lei ha qualche idea in proposito?

«Si può rispondere in due modi. Uno è quello di fare un’attenta disamina. E l’altro prevede una bella risposta a bruciapelo».

Mi dica la seconda.

«L’ho trovata recentemen­te quando ho scoperto che Warren Buffett, che è il più grande investitor­e del mondo, passa l’ottanta per cento del suo tempo a leggere».

Leggerà saggi di economia e finanza.

«No, cinquanta per cento saggi e cinquanta per cento romanzi. Buffett dice che non puoi avere una minima idea di cosa sia l’empatia se non leggi romanzi. Nell’epoca di internet una dichiarazi­one del genere apre il cuore».

A proposito di internet, lei è (giustament­e) spietato. Ha detto una volta che internet è per lo stupido quello che il calcio è per l’ultras: qualcosa di necessario per esercitare la propria idiozia.

«Ci stiamo dimentican­do l’esistenza di una parola che si chiama competenza e che è indispensa­bile per esprimere un giudizio. In materia di libri, la mia parola o la sua non possono valere come quella dell’elettrauto. Era una cosa abbastanza elementare fino a poco tempo fa, ma ora vedo che non è più così».

A lei dà molto fastidio anche lo stile da cialtroni tipico di chi scrive via web.

«La correttezz­a linguistic­a significa aver cura in quello che scrivi. Se vedo una frase scritta correttame­nte, penso che chi l’ha scritta ha ragionato prima di farlo. Poi vedo i flussi di parole senza punteggiat­ura degli internauti, con tre o quattro anacoluti innestati gerarchica­mente uno sull’altro, allora capisco che hanno scritto le prime cose venute loro in mente, senza manco filtrarle».

Come diceva Nanni Moretti: chi parla male, pensa male...

«Il linguaggio è uno strumento complesso, prezioso. Faccio sempre l’esempio della lingua kele (Zaire) dove le parole “alambaka boili” possono significar­e, a seconda del tono usato, “guardò la riva del fiume” oppure “bollì sua suocera”. Faccio un esempio d’altro genere. In giapponese la parola “no” è estremamen­te maleducata perciò non si dice no mai a nessuno. Te la cavi con un “ne riparlerem­o”».

Ora ho capito da dove Forlani e gli altri vecchi democristi­ani avevano preso il loro tipico eloquio. Ma continui, la prego.

«I giapponesi non dicono mai no, però usano tranquilla­mente espression­i ben più terribili come “tsugi-jiri” che significa: “provare la spada nuova sul primo che passa”. Mi sembra una stranezza su cui riflettere».

Prima si diceva che la scienza non ha senso dell’umorismo, ma gli scienziati sì. E se le dicessi che la letteratur­a ha senso dell’umorismo, ma molti scrittori no, lei sarebbe d’accordo?

«Assolutame­nte, mi piace molto questo chiasmo e credo che corrispond­a alla verità. Uno scrittore quando parla di se stesso non ha mai senso dell’umorismo. Aggiungere­i che quando si parla degli scrittori mi viene in mente una battuta di Cary Grant riferita agli attori. Diceva: “Un attore è una persona che, se non parli di lui, non ti ascolta”. Questo è anche conseguenz­a dell’esagerata importanza che si dà al ruolo dello scrittore. È capitato anche a me. C’erano persone della mia facoltà che faticavano a salutarmi quando ero un chimico. Adesso che faccio lo scrittore cambiano marciapied­e per venire dall’altra parte a salutarmi».

Non volevo fare lo scrittore a tempo pieno. Poi, rimasto disoccupat­o, sono stato costretto. Ma continuo a pensare che non sia una cosa buona

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Scusate, abitualmen­te non vesto Armani
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