VIDEOCRAZIA
Quanta tristezza dedicarsi solo ai remake
DAVID LYNCH NON È MISTER BEAN e non è giusto che faccia la stessa fine. Io non ho l’abbonamento a Sky e quindi non avrei potuto vedere il nuovo Twin Peaks neanche se avessi voluto – ma la cosa grave è che non l’avrei visto neanche in chiaro, sul digitale terrestre. Perché non voglio: sono orgogliosamente un “No Twin Peaks”, senza se e senza ma. Eppure la prima serie, 27 anni fa, mi aveva ipnotizzato. E sono un grande ammiratore di David Lynch. Ho due tipi diversi di problemi con questo sequel di Twin Peaks: il primo – e la tv non c’entra, per una volta la colpa non è sua – è che purtroppo Hollywood ha deciso che i film di Lynch non rendono al botteghino (troppo complicati), e quindi dal 2006 ( Inland Empire) i produttori non gliene hanno più lasciati girare. È evidente che proporre un seguito dell’unico vero grande successo commerciale della sua carriera, Twin Peaks, era un modo infallibile per tornare al lavoro (è normale che a forza di girare spot di profumi e dipingere, a un grande regista possa anche venire la tentazione di tornare sul set). Neppure sotto tortura, temo, Lynch confesserebbe che questo sequel era l’unico modo per rimettersi a fare il suo mestiere. Il secondo problema, quello più grave per me, è che la tv è già normalmente fatta di repliche, di minestre neanche troppo riscaldate, di formule che funzionano spremute all’inverosimile: aggiungerci anche il “brand” di Twin
Peaks è un po’ triste. D’altronde, facendo zapping appena prima di cominciare a scrivere questa rubrica, tra il pomeriggio e la sera di domenica scorsa, mi sono trovato davanti a
Mister Bean, una serie – esilarante, ma non è questo il punto – prodotta dal 1990 al 1995 . Che ci faceva nel mio televisore in un pomeriggio (caldo) del 2017 Mister Bean? Più o meno quel che ci facevano le comiche di Stanlio e Ollio (in confronto, il Mister Bean di 25 anni fa è una primizia) quando ero piccolo, negli Anni 70. Nessuna nostalgia per quella Rai in bianco e nero (neanche per quell’Italia, ma è un altro discorso) che riciclava “contenuti” (così li chiamerebbero adesso) di mezzo secolo prima. Però se nel 2017 mi ritrovo davanti a I pronipoti che era già vecchio quand’ero bambino, I Cesaroni di chissà quanti anni fa, e per l’appunto Mister Bean, c’è un evidente problema: ai critici americani fa piacere parlare di “peak tv”, il picco della produzione di nuovi contenuti che negli ultimi anni cerca di riempire la voragine creata da tutte le nuove piattaforme alla disperata ricerca di qualcosa da trasmettere. Però gli americani – intesi come pubblico di consumatori di nuove produzioni – sono anche i massimi sostenitori – al netto degli occasionali telefilm di qualità, da Mad
Men a Breaking Bad – di un’industria del cinema basata sui sequel, sui remake, sui film di supereroi (nelle sale americane – quelle rimaste – c’è poco altro ormai). Che anche la tv del 2017 consideri
Twin Peaks, che una generazione fa ci incantò perché era un’invenzione originale e affascinante e ipnotica, come un “brand” famoso da rispolverare e riproporre, mette soltanto infinita tristezza.
E NO, NON MI FA PIACERE che il primo episodio (negli Stati Uniti è andato in onda su Showtime, via cavo) abbia avuto oltreoceano un’audience ridicola (671.000 persone: gli americani sono 321 milioni, nel 1990 l’audience del telefilm era di 34,6 milioni) e si sia ripreso soltanto grazie allo streaming. Però non mi ha stupito per niente.