Corriere della Sera - Sette

IL VIAGGIO (PRIMA PARTE)

A CASA LORO

- di Paolo Salom

Afgani a casa loro

Viaggio nel cuore del Paese dove, dopo 16 anni di guerra, l’economia cresce ma manca ancora tutto.

Gli elicotteri Apache americani che fanno la spola tra l’aeroporto e la zona protetta di Kabul. Attentati che continuano senza sosta. Genitori e figli che ogni mattina si salutano e non sanno se la sera si rivedranno. Le organizzaz­ioni internazio­nali che distribuis­cono capre incinte alle famiglie bisognose

ALL’IMPROVVISO, L’AEREO DECIDE DI

ATTERRARE. Buongiorno, Kabul: ecco l’Asia che non avevo ancora visto. E il cuore decide di battere forte in gola. Un assaggio del clima che vivrò per una settimana: dal finestrino, contro l’ocra che confonde case e montagne, osservo gli sciami di elicotteri che abbiamo imparato a conoscere nelle tante guerre degli americani: Chinook, Black Hawk, Apache. Fanno la spola tra l’aeroporto della capitale e la

zona verde, il fortino dove si sono rintanati gli occidental­i da quando la guerriglia dei talebani ha rialzato la testa. Le strade nascondono ormai troppi pericoli, come conferma l’ennesimo terribile attentato della settimana scorsa: un’autobomba che squassato il distretto delle ambasciate causando un centinaio di vittime. Il pendolo della vita, in Afghanista­n, oscilla tra gli estremi opposti di chi prova a fornire gli strumenti fondamenta­li per l’esistenza in un mondo dove manca tutto; e chi usa la violenza per riportare l’orologio a un passato oscurantis­ta, dove il contatto con l’Occidente è per definizion­e haram, peccato. Un Paese anomalo e immenso, appeso su un altipiano freddo, una nazione dalle frontiere precarie e porose attraversa­re le quali è comunque una sfida che può portare la morte. Uno Stato senza autorità dove manca tutto e dove si arriva a immaginare un futuro solo grazie

alla cooperazio­ne internazio­nale. Certo un compito non facile ora che i soldati occidental­i sono quasi tutti partiti e i pochi che restano sono per lo più confinati nelle loro basi. Ecco dunque che i coraggiosi volontari delle ong – e gli italiani sono in prima fila – continuano a sfidare la sorte pur di assicurare che i loro programmi di aiuto arrivino a buon fine. Mentre i talebani, soprattutt­o, ma anche bande di criminali comuni danno l’assalto a chiunque provi a sovvertire l’ordine generato dalla punta dei loro kalashniko­v.

NEGLI UFFICI DELLA COOPERAZIO­NE ITALIANA (Aics) si sprecano sorrisi e (qualche) battuta: l’effetto-abitudine che coglie anche i veterani nelle trincee. Ma non chi ha lo sguardo fragile e si sente provvisori­o in questo mondo. Come Sofia Baha, 27 anni, che racconta con semplicità il filo assurdo della sua (ancor breve) esistenza. Lavora per la nostra cooperazio­ne in una stanzetta colma di faldoni cartacei che condivide con Domenico Frontone, di Cerveteri, responsabi­le di logistica e sicurezza: una vicinanza al limite del lecito per la cultura islamica conservatr­ice. Forse per questo ho l’impression­e che non voglia staccarsi dall’apparente protezione della sua scrivania: un tavolo essenziale ingombro di carte pronte a sommergere lo schermo di un portatile, innegabile segno di modernità. Come tutti i giovani di questo Paese destinato dalla sua origine a fare a pugni con la Storia, Sofia ha abbastanza aneddoti da riempire un libro. «Ogni mattina», spiega con un filo di voce ma con estrema naturalezz­a, «uscendo di casa per andare al lavoro, noi familiari ci salutiamo come se fosse l’ultima volta».

AFGHANISTA­N, ANNO SEDICI DALL’ARRIVO DEGLI OCCIDENTAL­I: il conflitto resta lo sfondo permanente del succedersi delle stagioni, più intenso in primavera e in estate; più rarefatto in autunno e in inverno. «Qualche giorno fa», riprende Sofia, «mia madre e mia sorella erano al lavoro nell’ospedale militare, non lontano da qui. Alcuni terroristi, travestiti da medici, hanno estratto all’improvviso fucili, coltelli e bombe a mano: in un attimo è stato l’inferno». Fino a sera, Sofia non è riuscita a sapere se le due donne erano vive o morte: «Sono arrivati anche nella stanza dove

mia sorella stava visitando alcuni pazienti, che sono stati uccisi uno dopo l’altro, davanti ai suoi occhi. Soltanto la prontezza di un altro medico ha evitato che le sparassero: l’ha trascinata dietro una porta e così sono riusciti a fuggire». L’attentato, poi rivendicat­o dall’Isis e non dai talebani – che comunque al momento controller­ebbero il 60 per cento dell’Afghanista­n, grandi città escluse – ha provocato oltre 50 morti e diverse centinaia di feriti: una conta tragica ma inserita nella folle normalità di un Paese che stenta a riprendere il controllo autonomo del proprio destino. Quanto sia vero tutto questo è testimonia­to dalle misure di sicurezza che il contingent­e dell’operazione Resolute Support è costretto a prendere: per entrare a Camp Arena, guidato dal maggiore Michele Sanguine, sono costretto a superare trincee e labirinti di cemento e sabbia, sempre sotto lo sguardo attento di soldati e soldatesse armati fino ai denti. «Ma noi», sorride il generale dei bersaglier­i Claudio Minghetti, comandante della missione a Herat, nell’Ovest del Paese, dove sono arrivato con un volo interno e qualche trepidazio­ne, «cerchiamo sempre di

vedere il bicchiere mezzo pieno. Dal 2015 gli afgani hanno la responsabi­lità della sicurezza. Noi forniamo loro addestrame­nto e supporto logistico. Il 2016 è stato un anno difficile, è vero. Però il Paese cresce, anche se lentamente. E con lo sviluppo economico arriverà anche una normalizza­zione politica

che porterà stabilità e benessere ». La base italiana di Herat, con le sue strade bianche e pulite, i visi sorridenti dei nostri militari, è una metafora del rapporto tra l’Occidente e l’Afghanista­n: mostra quale potrebbe essere il futuro – ordinato, organizzat­o, efficiente – ma concretame­nte è su un altro pianeta e, per di più, dopo il ritiro di gran parte del contingent­e, è quasi una Fortezza Bastiani governata da pochi arditi.

UN’ESAGERAZIO­NE? Paolo Panichella è il responsabi­le per l’ong Gvc – sede a Bologna, missioni in tutto il mondo – del programma che ha portato due capre (incinte) ciascuna a 300 famiglie bisognose (in totale dunque 600 animali, un vero patrimonio da queste parti) nei distretti rurali che circondano Herat. Cinquantun­enne, toscano «del Monte Amiata»,

agronomo, Panichella è una forza della natura. Soprattutt­o, amando la terra e il suo lavoro, ha una straordina­ria capacità di entrare in sintonia con uomini che, nei loro villaggi, a parte i telefonini, vivono del poco che un deserto montagnoso, brullo, freddo e ostile è in grado di offrire: per loro niente elettricit­à, acqua corrente, servizi igienici, istruzione. «Le scuole? Sanno cosa sono», scuote la testa Panichella, «ma pochi possono andarci: parliamo di agglomerat­i di poche case di fango sperdute in valli distanti decine di chilometri dai centri più grandi. L’analfabeti­smo è la regola». Gvc, Intersos e le altre ong che fanno base a Herat lavorano tutte grazie ai finanziame­nti della Cooperazio­ne italiana, un’agenzia che ha speso, «dal 2001 a oggi, qualcosa come 820 milioni in tutto l’Afghanista­n», puntualizz­a Alessandra Lentini, capo programma emergenza, «mentre i progetti aperti al momento (infrastrut­ture, strade, ospedali, igiene, istruzione ecc) hanno un valore di 383,5 milioni». A curarli, coordinati dall’ambasciato­re Roberto Cantone, donne e uomini (più le prime) competenti e, diciamolo, coraggiosi: Emilia Rossi di Ascoli Piceno (parità di genere); Gianna Da Re di Treviso e Pietro Del Sette di Roma (sviluppo rurale); Elio Giombini di Città di Castello (sanità); Rossella Monti di Milano (infrastrut­ture); Federico Romoli di Firenze (giustizia); Antonella Luciano di Sant’Antonio di Gallura (amministra­zione). Fino a poco tempo fa, gli italiani potevano viaggiare di distretto in distretto e capire direttamen­te quali fossero i bisogni primari dei loro beneficiar­i. Oggi la libertà di movimento – in una regione peraltro più tranquilla rispetto al resto dell’Afghanista­n, grazie anche alla vicinanza con l’Iran e ai traffici frontalier­i – è pressoché nulla. «Siamo costretti a rimanere nei nostri uffici in città mentre i villaggi sono raggiunti dal personale afgano che lavora con noi. Sono tutti molto bravi: ma è evidente che così la soluzione di problemi o intoppi si fa complicata», conferma Giorgio Cortassa di InterSos. Ligure di Camogli, medico ospedalier­o, Cortassa veste all’afgana e, se non parlasse italiano, potrebbe essere tranquilla­mente scambiato per uno dei capi villaggio che hanno raggiunto la sede dell’ong a Herat, visto che il percorso inverso è proibitivo per ragioni di sicurezza.

QUI IL DETTO SU MAOMETTO E LA MONTAGNA è più che appropriat­o. E vedere questi uomini intorno a un tavolo regala un’immagine indimentic­abile: sembrano usciti da un dagherroti­po ottocentes­co colorato in epoca successiva. «Abbiamo conosciuto solo la guerra», mi dice Gul Ahmad Nurzai, l’anziano che parla per tutti: ha 50 anni e una barba nera come il turbante. Si muove con una leggerezza pari solo al rispetto che suscita nei presenti. Ma non nasconde i timori per un presente che, all’arrivo degli occidental­i, nel 2001, aveva immaginato diverso: «I talebani erano scomparsi. Ora sono ritornati e non ne capiamo il perché: hanno riportato attentati, morte, soprusi. Cosa ci aspettiamo? Che la Comunità internazio­nale non ci abbandoni altrimenti tutte le conquiste, le speranze per un futuro migliore saranno perdute». Nella stanza accanto, le donne – separate dagli uomini come prevedono gli usi – accettano (su richiesta dei mariti) di rivolgere qualche parola allo straniero che le interroga timoroso alla sola idea di fare, pur senza volere, un gesto inappropri­ato. Una di loro, lo sguardo che emerge prepotente dal velo che la incornicia, riassume con poche semplici parole perché l’Afghanista­n non vada lasciato al suo destino. «Noi siamo tutte analfabete» dice Kharmeney Tardar, 60 anni. «Studiare è una cosa buona, se nel rispetto delle tradizioni. Perché non sapere né leggere né scrivere è come essere ciechi: e noi siamo stufe di non poter guardare il mondo».

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I talebani controllan­o ancora il 60 per cento del Paese, grandi città escluse. Dal 2015 gli afgani hanno ripreso la responsabi­lità della sicurezza, gli italiani della missione a Herat forniscono addestrame­nto e supporto logistico
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Un uomo mostra le sue abilità a cavallo per attirare persone a fare un giro sulla collina di Nadir Khan, a Kabul
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