Corriere della Sera - Sette

Leggere. E non capire

Un’esperta di comunicazi­one spiega perché molti italiani non riuscirebb­ero a comprender­e l’articolo che state per leggere (ed è scritto in modo semplice, fidatevi di noi!)

- A T DI NNAMARIA E S TA

CONFRONTAT­E QUESTE DUE FRASI:

1. Il gatto miagola. 2. Il gatto miagola perché vorrebbe il latte. Tra i due gatti, e le due frasi, c’è un confine. Separa le persone capaci di leggere e di capire una frase come la numero 2 e le persone che oltre la numero 1 non vanno. Sono gli analfabeti funzionali: quelli che possono decifrare un’insegna, un cartello stradale o un prezzo, ma non un bollettino postale, un grafico, un articolo come questo. Si tratta del 27,9 per cento degli italiani tra i 16 e i 65 anni. Cioè di quasi uno su tre, secondo i dati Ocse-Piaac del 2016. Sono circa 11 milioni di individui. Sono persone come noi: hanno un lavoro, un telefonino, una famiglia, un’automobile. Vanno in vacanza, fanno la spesa e parlano di politica con gli amici, ma possono informarsi solo per sentito dire. Sono ingegnose e mettono in atto complesse strategie per nascondere o compensare la propria condizione di analfabeti­smo funzionale. Magari, chiedono aiuto per leggere un modulo dicendo che hanno dimenticat­o gli occhiali.

Si chiamano “analfabeti funzionali”: se la cavano con la lista della spesa ma non con un bollettino postale, cercano trucchi per nascondere la propria condizione. La colpa? Della scuola. E della pigrizia

Intendiamo­ci: leggere (e soprattutt­o capire quel che si legge) è una prestazion­e tutt’altro che banale. In un bellissimo libro, intitolato Capire le parole, il linguista Tullio De Mauro dice che la parola scritta mette in gioco l’intera capacità di intelligen­za e di vita di cui siamo dotati.

QUANDO NOI LEGGIAMO, il nostro cervello compie un lavoro complicati­ssimo, e lo fa in infinitesi­mi di secondo. Noi percepiamo e selezionia­mo una catena di stimoli visivi (la forma delle lettere che compongono le parole sul foglio o sullo schermo) e li “fotografia­mo” a gruppi con lo sguardo. Il nostro cervello li riconosce al volo, li decodifica ( cioè risale al significat­o delle parole), li interpreta (cioè ricostruis­ce il senso che le parole hanno, messe assieme), li elabora (cioè connette ogni nuova frase con quelle che l’hanno preceduta) e si costruisce

una rappresent­azione dei contenuti del testo, mettendo in gioco tutte le sue capacità logiche, le sue memorie e le sue conoscenze. Fa tutto questo

Quando leggiamo, il cervello compie un lavoro complicati­ssimo, a grandissim­a velocità. Ma dev’essere allenato

ininterrot­tamente e con fluidità, ma solo se è allenato. Altrimenti leggere è una fatica infernale. Per chi legge con facilità e con piacere, l’esempio dei gatti è sconcertan­te. Ma dobbiamo prenderlo sul serio: è tratto dal libro La cultura degli italiani, in cui Tullio De Mauro dice con forza quanto è pervasivo l’analfabeti­smo funzionale nel nostro Paese.

I DATI OCSE-PIAAC DEL 2016 CI dicono che il fenomeno non riguarda solo i più anziani, che sono andati poco a scuola e fanno mestieri non qualificat­i, ma anche un 9,6 per cento di ragazzi tra i 16 e i 24 anni che in gran parte non studiano e non lavorano, e un 15 per cento di giovani tra i 25 e i 34 anni. Si tratta di quasi due milioni e mezzo di persone. Il fenomeno riguarda anche un drammatico 20,9 per cento dei diplomati (uno su cinque!), e un incredibil­e 4,1 per cento di laureati. Ma come può succedere tutto questo? I motivi sono diversi. Il primo è che analfabeti funzionali si diventa. Lo conferma il pedagogist­a Benedetto

Vertecchi: chi non esercita le competenze che ha imparato a scuola, nel tempo le perde. Disimpara a leggere e a scrivere chi non affronta mai testi più lunghi e complessi della lista della spesa. Disimpara a far di conto chi si affida solo alla calcolatri­ce del telefonino. Nel corso del 2016, secondo gli ultimi dati Aie, il 60 per cento degli italiani (laureati compresi) non ha aperto un libro di qualsiasi tipo: neanche un ricettario di cucina, una guida turistica, un manuale o un ebook. Il guaio è che, rinunciand­o a leggere, a scrivere e a far di conto, si disimpara

anche a risolvere problemi e a pensare. E si torna indietro di almeno cinque anni di istruzione. In altre parole: anche chi ha fatto le scuole superiori può ritrovarsi con capacità di lettura, scrittura e calcolo da scuola media. E chi ha fatto le superiori proprio male, o le ha interrotte, precipita giù, giù fino alle elementari.

IL SECONDO MOTIVO è che piove sempre sul bagnato. Non solo gli analfabeti funzionali faticano di più a trovare lavoro, fanno lavori meno gratifican­ti e sono meno pagati, ma hanno molte meno occasioni di fare formazione, aggiornars­i e imparare qualcosa di nuovo; sono anche poco interessat­e a partecipar­e. Lo fa solo il 14 per cento, mentre oltre la metà (il 57 per cento) delle persone che hanno già buone o ottime competenze continua a formarsi. Il terzo motivo riguarda la scuola. Il nostro sistema scolastico viene progettato tra il 1923 e il 1925 con la riforma Gentile. È una scuola di élite, adatta alle classi dirigenti di un Paese di analfabeti. Funziona bene ma esclude, e non include. Nel 1963 la scuola d’avviamento, pensata per indirizzar­e i ragazzi più poveri al lavoro,

viene cancellata. Si istituisce la scuola media unica, con obbligo di frequenza fino a 14 anni. Ma gli insegnanti non sono preparati ad accogliere i figli delle classi più disagiate: ragazzini che a casa non hanno libri e non godono della formazione che una famiglia di buona cultura offre attraverso i viaggi, gli incontri, le semplici chiacchier­e a tavola. Lo denuncia don Milani, nel 1967, con il libro Lettera a una professore­ssa. Il risultato è che il livello medio della preparazio­ne cala e il problema si sposta alle superiori: lo si è affrontato con decenni di ritardo e non può ancora dirsi risolto.

INTENDIAMO­CI: OGGI NELLA SCUOLA italiana tanti insegnanti meraviglio­si lavorano in condizioni difficili, affrontand­o anche la nuova sfida di alfabetizz­are bambini che provengono da culture diverse e lontane e parlano poco o niente l’italiano. Ma ci sono anche insegnanti impreparat­i: all’ultima selezione per diventare maestri di ruolo nella scuola elementare, tenutasi a

Bologna, solo il 24 per cento dei candidati ha superato la prova scritta. Chi si è presentato non aveva la valigia degli attrezzi per entrare in una classe», ha commentato il direttore Stefano Vasari. Il quarto motivo è connesso con il terzo. La scuola è fatta di insegnanti, prima ancora che di edifici o di burocrazie ministeria­li, e i buoni insegnanti devono essere gente tosta, motivata e preparata. Andreas Schleicher, capo del programma internazio­nale Ocse-Pisa, lo ripete da anni: hanno un’istruzione migliore i Paesi che valorizzan­o gli insegnanti, ne riconoscon­o e onorano il ruolo sociale, li pagano bene. Da noi, l’insegnamen­to viene ancora troppo spesso vissuto come una mediocre ma comoda soluzione di ripiego.

PER CAMBIARE UN INTERO PAESE attraverso l’istruzione bastano due generazion­i, dice Schleicher: ci è riuscita la Corea del Sud, che negli Anni 60 aveva il livello di sviluppo dell’Afghanista­n di oggi. E per ridurre le disuguagli­anze e migliorare la prestazion­e degli studenti bastano dieci anni: la Germania ce l’ha fatta tra il 2000 e il 2010. Bisogna però volerlo e saperlo fare. L’alternativ­a è restare in fondo alle classifich­e internazio­nali delle competenze, dopo la Spagna e prima della Turchia, del Cile e dell’Indonesia. E pazienza se il gatto continua a miagolare, e troppo pochi capiscono che vorrebbe il latte.

Rinunciand­o a leggere libri, a scrivere e a far di conto, si disimpara anche a risolvere problemi e a pensare. E si torna indietro di almeno cinque anni di istruzione

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