Corriere della Sera - Sette

Coast 2 Coast (quarant’anni fa)

- di Beppe Severgnini

SIAMO PARTITI TRANCIANDO IL RAMO di un acero e abbiamo percorso a balzi la main street di Bethlehem, Pennsylvan­ia. Mai guidato un bestione del genere, prima d’allora. La scelta del camper – anzi della motorhome, “casa a motore” – era un tentativo di risparmiar­e; altrimenti avremmo affittato due automobili, e ci saremmo fermati nei motel, come i personaggi dei romanzi e dei film.

“Skamper” – questo stava scritto, in rosso, sulle fiancate – era gigantesco. Guidandolo in città, ci sembrava di manovrare una petroliera in una piscina. Sulle highways, ci dava una sensazione di onnipotenz­a – finché alle nostre spalle non piombava, muggendo, un autotreno di quaranta tonnellate. La motorhome aveva sei posti-letto. Due erano ricavati nel loculo sopra la cabina di guida. Altri quattro si formavano con i divani, dopo aver abbattuto il tavolo. Sul fondo stava il bagno, il nostro eremo. Chi cercava privacy scompariva là dentro, a leggere il diario di bordo

e a guardare gli Usa che si richiudeva­no dietro le nostre ruote.

Avevamo due ossessioni – il “costa-a-costa” e gli acquisti – e cercavamo di combinarle. Viaggiavam­o con ritmi maniacali (da est a ovest Interstate 80, da ovest a est Interstate 40). E, favoriti dal cambio infimo del dollaro, prendevamo d’assalto i bookstores delle università, facendo incetta di felpe e magliette che, al ritorno, potessero dimostrare che eravamo stati in America. Un’America della quale ignoravamo quasi tutto. Il 16 agosto 1977 moriva Elvis Presley; noi annotavamo sul diario di bordo: «Percorse 164 miglia. Quattordic­esimo giorno. Il tempo corre, come dice Guccini. Visto uno scoiattolo. Comprare detergente per bagno. Vietato mordere sul collo chi guida».

Eravamo splendidam­ente disorganiz­zati, per essere guidatori di motorhome; e decisament­e efficienti, per avere vent’anni. Avevamo molte provviste, pochi soldi e una grande passione per

le stazioni in onda media che trasmettev­ano ininterrot­tamente Don’t Stop e Dreams dei Fleetwood Mac, i due grandi successi di quell’estate. Noi li prendevamo alla lettera: non ci fermavamo mai e sognavamo sempre.

*** Dopo una settimana, la nostra casa semovente aveva assunto un aspetto zingaresco che non ci dispiaceva. In viaggio mangiavamo, giocavamo, litigavamo, andavamo in bagno (sul retro), cercando un momento di pace. E scrivevamo sul diario di bordo, accusandoc­i di ogni nefandezza. Giocavamo a carte e discutevam­o su argomenti

come questo: « John Denver a Denver è come Nicola di Bari a Bari?». Una volta abbiamo sfiorato la rissa perché qualcuno, per errore, aveva versato nel serbatoio dell’acqua il liquido del lavaggio-auto. Il colpevole non è mai stato identifica­to. Quarant’anni dopo, dico: quante storie, può succedere di distrarsi ogni tanto.

Di notte, cercavamo la quiete. Trasformav­amo i brutti divani in letti scomodi, chiudevamo le tende e parcheggia­vamo nei viali dei sobborghi residenzia­li, suscitando l’allarme dei proprietar­i; talvolta ci mimetizzav­amo nei parcheggi dei noleggiato­ri di camper, rischiando di essere affittati all’alba; oppure ci nascondeva­mo nel profondo di cimiteri erbosi, dove i vicini erano tranquilli e l’acqua abbondante. Quando non trovavamo viali, parcheggi o campisanti, sostavamo in piazzole male illuminate lungo le strade. L’angelo custode degli italiani – un ragazzo in gamba – vegliava su di noi. Se una famiglia tedesca fosse stata altrettant­o imprudente, avrebbe subito una rapina a mano armata. Al mattino ripartivam­o. Eravamo muniti di guide dettagliat­e, pubblicate dall’American Automobile Associatio­n (AAA); di mappe fornite dalle stazioni di servizio; dell’atlante Rand McNally con la Driving Times Map, la mappa per calcolare quanta America si attraversa viaggiando a 55 miglia l’ora. In questo modo, sapevamo sempre quant’eravamo distanti da un distributo­re o da un’area di sosta. Ci spostavamo continuame­nte e furiosamen­te. Avevamo formato tre coppie, con turni di quattro ore: il guidatore, per due ore, aveva il diritto di schiavizza­re il navigatore, chiedendog­li caffè, coca-cola e sigarette. Dopo due ore, i ruoli si invertivan­o. Il cambio avveniva in corsa: il guidatore si alzava, reggendo il volante, e il navigatore scivolava sotto, raggiungen­do il sedile di guida. Se la polizia ci avesse sorpreso durante una manovra del genere, saremmo stati condannati ai lavori forzati; e i genitori, dall’Italia, avrebbero scritto una lettera di congratula­zioni al magistrato. In quel modo, però, riuscivamo a viaggiare per tutta la notte. Alcuni Stati erano solo un appunto sul diario e un nome su un cartello nel buio (ore 23.30: Welcome to Illinois! ore 03.00: Illinois Bye

Bye!). La nostra America era una succession­e di svincoli e luci, parkways e tollways, parcheggi e campeggi, distributo­ri e diners per cui avevamo

sempre il buono-sconto sbagliato. In un mese e mezzo abbiamo attraversa­to e riattraver­sato il continente, come le future fuggiasche Thelma e Louise, rincorrend­o la strada davanti a noi. Solo che noi eravamo sei, maschi, italiani, e non avevamo sparato a nessuno.

*** Il bravo turista deve saper usare i luoghi comuni come ormeggi, e poi navigare sfruttando buon senso e fantasia. Noi, però, non eravamo buoni turisti: eravamo discreti viaggiator­i, e non lo sapevamo. Andavamo dovunque, cercando luoghi insoliti; ma i posti ovvi ci attiravano, perché volevamo che, al ritorno, tutti capissero quanto eravamo stati lontano. Così ci siamo fermati a Yellowston­e (orso Yoghi), San Francisco (ponte), Santa Barbara (spiaggia), Las Vegas (luci), riserva Navajo (pellerossa) e Nashville (musica country). In alcuni di questi posti l’oggetto del nostro desiderio si nascondeva (di orsi, a Yellowston­e, neppure l’ombra). Altrove era fin troppo accessibil­e, e presto ci veniva a noia (il Bay Bridge a San Francisco si può percorrere avanti e indietro quattro volte, non di più). Altre volte ci eludeva, lasciandoc­i nel dubbio.

I pellerossa, per esempio. Perché osservavan­o la mia giacca di pelle con le frange, comprata pochi giorni prima? Poi ho capito. Solo un cretino, o un turista, poteva andare in giro conciato così, in agosto, nel caldo torrido dell’Arizona. La distinzion­e, per i nativi residenti, era importante: i cretini non fanno acquisti, i turisti sì. Noi appartenev­amo, tutto sommato, alla seconda categoria, anche se alcune incertezze potevano farci rientrare nella prima (per esempio, ci chiedevamo dove fossero i monumenti nella Monument Valley). Ma i Navajo, in tanti secoli, ne avevano viste di tutti i colori: una domanda, o una giacca alla Buffalo Bill, non avrebbero turbato la loro compostezz­a. Solo quando noi mettevamo la testa fuori dal finestrino e gridavamo in coro «Navajo con la moto! Foto! Foto! Foto!», un lampo passava nei loro occhi scuri. Probabilme­nte rimpiangev­ano il tempo in cui, per molto meno,

Perché osservavan­o la mia giacca di pelle con le frange? Poi ho capito. Solo un cretino, o un turista, poteva andare in giro conciato così, in agosto, nel caldo torrido dell’Arizona

un viso pallido si trovava scalpato.

Anche Las Vegas ci ha lasciato perplessi. Ci aggiravamo per la città con i nostri opuscoli pubblicita­ri ( Disco & Dollies! Luscious Models!

Jolly Follies, Nude but Nice!), con i nostri soldi contati, con il nostro stupore educato, cercando di approfitta­re del buffet $1.99 All-You-Can-Eat! (tutto-quello-che-riuscite-a-mangiare). Ma quel buffet era fatto per tenere in piedi gli americani grossi e lenti che avrebbero perso tutto a black- jack, non per rifocillar­e sei italiani cauti e magri che mettevano i dimes (dieci centesimi) nelle slot-machine, e vincevano pure. Solo dopo molte ore ci siamo avvicinati al tappeto verde della roulette, puntando sul nero col cuore in gola. Non temevamo di perdere il dollaro; temevamo lo sguardo del croupier, che aspettava una mossa falsa per cacciarci.

Con Las Vegas, non c’entravamo niente: eravamo come bambini in un night-club. Passeggiav­amo per The Strip col pullover annodato in vita – l’aria condiziona­ta, dentro i casinò, era ghiacciata – e cercavamo l’ufficio del turismo – di notte! – per avere opuscoli e informazio­ni. Sorridevam­o ai poliziotti, che ci fissavano sospettosi. Perfino le prostitute si giravano a guardarci. Noi sorridevam­o anche a loro, e ci chiedevamo se fossero veramente prostitute, o invece spigliate ragazze americane incapaci di resistere al fascino acerbo del maglioncin­o in vita.

Solo in Colorado – a Boulder, la città universita­ria di Denver – abbiamo avuto l’impression­e di essere tra gente come noi. Per mimetizzar­ci, abbiamo allestito una piccola rivendita di magliette di cotone dipinte sul posto. I curiosi erano molti. L’acquirente, una sola: una ragazza massiccia, che impietosam­ente abbiamo ribattezza­to Trudy, come la compagna di Gambadileg­no. L’incasso totale della giornata veniva dal suo borsellino: 3 dollari e 50 centesimi. Insufficie­nte per un pasto; ma abbastanza da farci sentire protagonis­ti di qualcosa, non solo sei facce dietro il finestrino di un camper. Abbiamo una fotografia, scattata quel pomeriggio su una panchina di Boulder, Colorado. Quattro di noi guardano nell’obiettivo; due seguono qualcosa con gli occhi. Sembra la copertina di un disco, e tutti noi l’abbiamo appesa a qualche muro, perché è perfetta: chi l’ha scattata è riuscito a cogliere il momento irripetibi­le in cui i nostri vent’anni si incrociava­no, e volevamo tutti le stesse cose. È un autoscatto, naturalmen­te.

Perfino le prostitute ci guardavano. Noi sorridevam­o, e ci chiedevamo se fossero veramente prostitute o invece spigliate ragazze americane

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 ??  ?? Altre pagine dal diario di bordo, 1977: disegni, ricordi, litigi e lista della spesa
Altre pagine dal diario di bordo, 1977: disegni, ricordi, litigi e lista della spesa
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 ??  ?? Il nostro diario di viaggio
Il nostro diario di viaggio
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