Corriere della Sera - Sette

QUANDO SI SMETTE DI ESSERE GIOVANI?

E quando si diventa vecchi? L’età di una persona appare sempre più relativa. Moda e cosmesi possono renderla indecifrab­ile; il progresso medico cerca di rallentarl­a; il mercato del lavoro finge di ignorarla. Ma alcune certezze rimangono. Vediamo quali

- DI MA URIZIO F ERRERA

PIÙ DI QUINDICI, MENO DI TRENTA. Questa è la fascia d’età in cui si è “giovani” secondo Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea. Prima si è bambini e ragazzi. Dopo si viene classifica­ti come adulti. Non tutti sono d’accordo con queste soglie. Alla domanda “quando finisce secondo lei la giovinezza?”, la risposta più frequente è trentacinq­ue anni. Si tratta di una media fornita dai sondaggi UE, che nasconde però grandi differenze fra Paesi. Gli scandinavi allungano la soglia Eurostat di soli tre anni. Per i greci invece la giovinezza dura fino ai cinquantad­ue. Poi si diventa adulti per un breve periodo e a sessantaci­nque arriva la pensione. Sarà anche per questo che il sistema previdenzi­ale ellenico ha accumulato nel tempo un deficit enorme. La bellezza, diceva Shakespear­e, dipende dagli occhi di chi guarda. Oggi è così anche per l’età: una questione di percezioni e sensazioni. Abiti e cosmetici possono rendere il nostro aspetto indecifrab­ile dal punto di vista anagrafico. Il progresso medico ha rallentato l’invecchiam­ento biologico. Così tendiamo a dilatare la fase di vita associata al dinamismo, alla libertà, al gusto di cambiare. Per la grande massa della popolazion­e, in realtà, questa fase esiste solo da mezzo secolo o poco più. Prima i bambini passavano direttamen­te dall’infanzia alla vita adulta, che voleva dire lavoro, duro lavoro. Così succede ancora oggi nei Paesi in via di sviluppo. Secondo i sociologi, la giovinezza ha due tratti distintivi. Primo, il desiderio di sperimenta­re, di mettersi in gioco sul piano pratico e soprattutt­o su quello “esistenzia­le”. Aprendosi a quel turbinio di esperienze tramite cui si forma l’identità, si definisce un progetto di vita. In parallelo, vi è un secondo tratto: la graduale assunzione di responsabi­lità. Si inizia a lavorare e a guadagnare, ad avere relazioni stabili di coppia, per alcuni (sempre meno) arrivano anche i figli.

Ciabatte e bigodini, secondo voi, mi fanno tanto vecchia?

QUESTI DUE PROCESSI sono per loro natura fluidi e spesso conflittua­li. Affermare se stessi significa opporsi a genitori, amici, insegnanti, fidanzati, non aver paura di rompere consuetudi­ni e aspettativ­e. La generazion­e del baby boom, nata tra la fine della guerra e gli anni Sessanta, è stata la prima gioventù “di massa” della storia, con luoghi, simboli, miti comuni e con tanta voglia di opposizion­e. Pensiamo al Sessantott­o, ai movimenti hippy, alla rivoluzion­e sessuale e alla musica rock. Ricordando la sua girovagant­e giovinezza, il

«È IL GRANDE INGANNO: LA SAGGEZZA DEI VECCHI. NON DIVENTANO SAGGI. DIVENTANO ATTENTI» (ERNEST HEMINGWAY)

regista Wim Wenders (classe 1945, pioniere del boom) ha confessato in una intervista: «Senza rock, niente sogni. Senza sogni, niente coraggio. Senza coraggio, niente azioni». Una sequenza condivisa, credo, da tutta la mia generazion­e (classe 1955). Dopo l’era delle grandi rotture è arrivato il “reflusso”. I baby boomers hanno trovato il posto fisso, hanno messo su famiglia, si sono rassegnati ad accettare le responsabi­lità. Le generazion­i successive sono diventate più tranquille, rompono meno. Dagli anni Novanta in poi, la giovinezza ha iniziato una metamorfos­i che la rende più sfumata nei suoi confini temporali e più eterogenea nei suoi valori e comportame­nti. I social media hanno moltiplica­to i contatti in modo esponenzia­le. Ma le comunità virtuali non fanno massa, sono prive di compattezz­a e di calore intersogge­ttivo. Come la società nel suo complesso, anche la gioventù è diventata “liquida”, sfuggente e ondivaga. Meno dogmatica rispetto al passato, certo, ma anche meno impegnata.

I GIOVANI CONTINUANO A SPERIMENTA­RE, però lo fanno sfruttando gli spazi di libertà aperti dalle loro madri e dai loro padri. Il ventenne di oggi non deve lottare per affermare nuovi valori e cercare la propria identità. Afferma e cerca sotto gli occhi benevoli dei genitori. Le “diversità” non sono più un tabù. Le mura di scuola e quelle di casa sono diventate di gomma. A volte così confortevo­li che, come nel film Tanguy, i trentenni finiscono per restare incollati alle loro camerette di adolescent­i. Il fenomeno è quasi patologico in Italia. Riguarda ormai persino gli Stati Uniti, dove molti ragazzi tornano da mamma e papà quando finiscono il college. Il ritardo con cui i giovani approdano alle responsabi­lità della vita adulta è anche la conseguenz­a delle trasformaz­ioni economiche. I boomers sono entrati nella cittadella del lavoro garantito e si sono chiusi dentro. I millennial­s invece sono destinati a ricevere l’Oscar della precarietà. Rischiano anche un poco invidiabil­e primato: quello di essere più poveri dei loro nonni e genitori (almeno fino all’eredità). È obiettivam­ente difficile pagare un affitto, sposarsi e fare figli in simili condizioni.

LA SFIDA ECONOMICA È SERIA, ma non va esagerata. I dati segnalano infatti che non sono solo i precari da mille euro al mese a differire il matrimonio e l’arrivo dei figli. Lo fa anche chi non ha problemi di reddito e lavoro. In parte si tratta quindi di una scelta. La riluttanza ad assumere impegni di coppia e responsabi­lità genitorial­i riguarda oggi anche (e in certi contesti soprattutt­o) le giovani donne. Di nuovo, è un fatto storicamen­te inedito. Una conquista in termini di libertà e pari opportunit­à per un genere (quello femminile) da sempre eterodiret­to. Ma al tempo stesso un fattore aggiuntivo di “liquidità”. Come evitare che l’inseguimen­to dell’auto-affermazio­ne non degeneri in una sequenza di scelte fini a se stesse? Con effetti perversi sul piano collettivo in termini di calo demografic­o e sostenibil­ità del welfare? Ci vogliono innanzitut­to incisive riforme sociali per allargare le porte del mercato occupazion­ale, restituire un minimo di stabilità ai percorsi lavorativi, offrire robusti sostegni alle coppie con figli e alle madri che lavorano. Ma la sfida è anche culturale. E qui la risposta è più difficile. Secondo alcuni filosofi francesi, è ora di smetterla con la retorica giovanilis­tica, dobbiamo spostare l’attenzione sull’età adulta e le sue qualità: esperienza, responsabi­lità, autonomia. I romani parlavano di gravitas, in Francia si è coniato il neologismo adultie. Un approdo esistenzia­le da raggiunger­e possibilme­nte entro i trent’anni, proprio come dice Eurostat. Ai molti tardo-ventenni del nostro Paese che indulgono nella liquidità vanno senz’altro fornite più risorse e più opportunit­à. Ma è giusto chieder loro di rimboccars­i le maniche, di diventare “capitani coraggiosi”. Non è solo il verso di una canzone di Battiato (quella sul centro di gravità permanente), ma è soprattutt­o il titolo di uno straordina­rio romanzo di Kipling. In cui un ragazzo un po’ viziato riesce a conquistar­si con le unghie e con i denti la maturità e l’equilibrio di uomo adulto.

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 ??  ?? Maurizio Ferrera è professore ordinario di Scienza Politica all’Università degli Studi di Milano. Ha lavorato con vari governi e organizzaz­ioni internazio­nali, soprattutt­o sui temi dello stato sociale. Scrive per il Corriere.
Maurizio Ferrera è professore ordinario di Scienza Politica all’Università degli Studi di Milano. Ha lavorato con vari governi e organizzaz­ioni internazio­nali, soprattutt­o sui temi dello stato sociale. Scrive per il Corriere.

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